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Nella notte, la gloria

fr. Maggiorino Stoppa

Le pagine del Vangelo che la liturgia propone nelle domeniche che preparano all'Ascensione, riconducono ai discorsi pronunciati da Gesù nel Cenacolo. Queste parole possono essere considerate il suo testamento spirituale, lasciato ai discepoli prima di sottrarsi alla loro esperienza diretta. Sebbene l'evangelista Giovanni le collochi prima della Passione, alcuni ritengono che questi insegnamenti possano aver caratterizzato in modo particolare il tempo tra la Risurrezione e l'Ascensione. Sarebbero dunque una sorta di preziose istruzioni date da Gesù a coloro che stavano per iniziare il "tempo della Chiesa" – quel tempo che è anche il nostro, un tempo di attesa vigile e operosa della sua venuta gloriosa. È in questa luce che ci si accosta alle letture odierne, che parlano della gloria che nasce dall'amore donato, della perseveranza nelle prove e della speranza certa in una creazione rinnovata.

L'ora delle tenebre, l'inizio della gloria

Rimanendo tuttavia all’ordine temporale che ci propone il testo, emerge un dettaglio particolarmente suggestivo nel versetto che precede immediatamente questo discorso, un momento intriso di tensione drammatica: è l’istante successivo all’uscita di Giuda Iscariota dal cenacolo. L'evangelista Giovanni lo descrive con una sintesi essenziale ma di straordinaria potenza espressiva: "Egli, preso il boccone, subito uscì. Ed era notte" (Gv 13,30). Questa "notte" non è una semplice indicazione cronologica. Essa assume un peso simbolico immenso, evocando le tenebre spirituali del tradimento, del peccato, dell'incomprensione e dell'imminente scontro con le forze del male. La figura di Giuda, nonostante la sua tragica unicità, può riflettere in modo profondo la fragilità universale insita nel discepolato. La paura, il dubbio, l'incapacità di comprendere appieno il mistero di Cristo sono ombre che possono avvolgere ogni credente . Anche gli altri discepoli, in quella notte, erano immersi in una forma di oscurità: lo smarrimento, la confusione e la paura li attanagliavano, come dimostrerà di lì a poco il rinnegamento di Pietro. La "notte" diviene così una condizione che, in modi diversi, tocca tutti i presenti, e il discorso che Gesù sta per iniziare rappresenta il suo intervento divino per infondere luce e speranza.

È proprio in questo contesto di tenebra palpabile, segnato dall'imminente tradimento, che Gesù pronuncia parole sorprendenti e paradossali: "Ora il Figlio dell'uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui" (Gv 13,31). Questa affermazione contrasta violentemente con la situazione, ridefinendo la sofferenza imminente non come una sconfitta, ma come l'inizio del trionfo. Gesù si rivolge ai suoi "discepoli" chiamandoli con tenerezza "Figlioli" (Gv 13,33), riconoscendo la loro vulnerabilità e preparando i loro cuori a comprendere un mistero che supera la logica umana.

Per cogliere la portata delle parole di Gesù, è essenziale comprendere cosa significhi "gloria" nel Vangelo di Giovanni. Non si tratta di fama o potere secondo il mondo. La "gloria" divina, che riecheggia l'ebraico "kabod", indica il "peso specifico", la sostanza, l'importanza e la manifestazione visibile dell'essere e della presenza di Dio. È la rivelazione della sua stessa natura. Quindi, quando Gesù parla di essere "glorificato", si riferisce alla manifestazione della vera natura di Dio, che, come il testo spiega più avanti, è Amore. Questo capovolge ogni logica mondana, indicando che la vera grandezza agli occhi di Dio non risiede nel dominio, ma nell'amore che si svuota e si offre (cfr. Fil 2,5-11).

Il comandamento nuovo: risposta divina al male

È in questo contesto solenne, all'ombra della sua imminente sofferenza e del distacco dai suoi, che Gesù consegna il suo testamento spirituale: "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri" (Gv 13,34). Il precetto dell'amore fraterno esisteva già nell'Antico Testamento (cfr. Lv 19,18). La novità radicale di questo comandamento risiede nella misura e nel modello: "Come io ho amato voi". L'amore stesso di Cristo, un amore che si spinge fino al sacrificio della vita, diventa la sorgente e il paradigma dell'amore cristiano. Non si tratta semplicemente di un “devi fare questo” o un codice di comportamento, un imperativo etico, ma di un invito a una trasformazione interiore tale per cui si inizia ad amare attingendo alla stessa sorgente divina. È un invito a permettere che l'amore stesso di Dio operi e si manifesti attraverso i credenti.

Questo amore vicendevole, modellato su quello di Cristo, diventa il segno distintivo dei suoi discepoli: "Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri" (Gv 13,35). La credibilità dell'annuncio cristiano nel mondo poggia sulla testimonianza vissuta di questo amore. Il "comandamento nuovo" è intrinsecamente legato alla "gloria" appena proclamata. Amare "come io ho amato voi" significa amare in un modo che rivela la gloria di Dio. Pertanto, vivere il comandamento è il modo in cui i discepoli partecipano e manifestano la gloria di Cristo nel mondo.

Il comandamento dell'amore, specialmente donato in questo frangente, svela che la risposta ultima di Dio a ogni forma di male è l'amore che si dona e perdona. L'amore di Cristo è più forte di ogni peccato e tradimento; Egli ci cerca mentre lo abbandoniamo e ci perdona mentre lo condanniamo. Anche il traditore, come ogni persona, rimane infinitamente amabile e amato da Dio, e la sfida per Gesù, e per i suoi seguaci, è continuare a volere il bene dell'altro anche nel momento del tradimento.

Vivere questo amore divino, tuttavia, non è esente da difficoltà. Il Vangelo stesso ci prepara alla realtà che seguire Cristo e il suo comandamento d'amore in un mondo spesso governato da logiche opposte comporta inevitabilmente delle "tribolazioni". La lettura degli Atti degli Apostoli (At 14,21b-27), mostra concretamente questa dinamica. Paolo e Barnaba, ritornando nelle comunità da loro fondate, non nascondono questa verità, anzi, "confermano i discepoli ed esortano a restare saldi nella fede, dicendo che dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni" (At 14,22). Queste parole, lungi dall'essere un presagio di sventura, si pongono in continuità con l'insegnamento di Gesù sulla via stretta (cfr. Mt 7,13-14) e sulla persecuzione a causa del suo nome (cfr. Gv 15,18-20).

Le "tribolazioni" menzionate, dunque, non sono un segno della sconfitta del Vangelo, ma possono diventare, paradossalmente, il contesto in cui la forza dell'amore "come Cristo ha amato" si manifesta con particolare incisività. Esse non sono meri ostacoli, ma possono trasformarsi in occasioni preziose per compiere passi ulteriori nella fede e nella carità. Le crisi, le incomprensioni, le sofferenze affrontate con lo sguardo fisso su Cristo possono aprire piste inaspettate, purificando le motivazioni, rafforzando la dipendenza da Dio e rendendo la testimonianza più autentica e credibile. È proprio la perseveranza dei credenti in mezzo alle difficoltà, il loro "restare saldi nella fede" e nell'amore, che può diventare una "porta della fede" (At 14,27) per altri, una manifestazione della gloria di Dio che opera anche attraverso la fragilità umana.

La promessa della gloria futura come faro nel presente

Se il cammino nel mondo è segnato dalla necessità di vivere l'amore esigente di Cristo anche attraverso le tribolazioni, c’è però un orizzonte luminoso che dà senso e direzione a questa perseveranza: la promessa certa del compimento del progetto di Dio. Il testo dell'Apocalisse (Ap 21,1-5a), spalanca davanti ai nostri occhi questa meta gloriosa. Giovanni contempla "un cielo nuovo e una terra nuova" (Ap 21,1), una creazione radicalmente rinnovata dove la comunione perfetta tra Dio e l'umanità redenta sarà pienamente realizzata. L'immagine della "città santa, la Gerusalemme nuova, pronta come una sposa adorna per il suo sposo" (Ap 21,2) e la proclamazione "Ecco la tenda di Dio con gli uomini!" (Ap 21,3) esprimono il culmine del desiderio divino e umano.

Questa visione non è una fuga dalla realtà presente, ma un faro che illumina il cammino, inclusi i suoi tratti più impervi. La promessa che in quella nuova creazione "non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate" e che Dio "asciugherà ogni lacrima dai loro occhi" (Ap 21,4) non annulla la fatica del presente, ma la ricontestualizza. Le tribolazioni attuali sono temporanee e destinate ad essere superate dalla potenza trasformatrice di Dio, che dichiara: "Ecco, io faccio nuove tutte le cose" (Ap 21,5).

È cruciale comprendere che la capacità di vivere secondo questo "comandamento nuovo" e di perseverare nelle tribolazioni con lo sguardo rivolto alla promessa non origina da un mero sforzo della volontà umana. Si tratta, invece, di un dono gratuito, una grazia che sgorga dall'aver prima accolto intimamente l'amore che Cristo stesso ci ha donato. È come un vaso che, una volta colmato fino all'orlo, può naturalmente riversare il suo contenuto sugli altri. Di conseguenza, la vita cristiana non è primariamente uno sforzo eroico o un'iniziativa autonoma, ma si configura essenzialmente come una risposta grata e operosa all'amore preveniente di Dio: un amore che ci ha raggiunti per primo, ci abilita e ci invita a partecipare alla sua stessa vita divina, trasformandoci profondamente.