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Ascoltare la Voce, vivere da figli

fr. Maggiorino Stoppa

Il tempo pasquale rinnova in noi il senso della novità di Dio, la sua capacità di tracciare sentieri di vita e di grazia anche laddove l'esperienza umana sembrerebbe indicare solo ostacoli o vicoli ciechi. Le Sacre Scritture, in particolare nei brani che la liturgia spesso ci propone in questo periodo, illuminano questa divina pedagogia: un agire che trasforma le apparenti sconfitte in opportunità feconde, le resistenze in occasioni per un annuncio più vasto, le tribolazioni in crisalidi di una gloria più piena.

Dalle Sconfitte Umane al Piano Divino

Il racconto del primo viaggio missionario di Paolo e Barnaba, narrato negli Atti degli Apostoli, offre una vivida illustrazione di come l'annuncio del Vangelo possa suscitare reazioni contrastanti, e di come Dio sappia trarre il bene anche dall'opposizione più ostinata.

Giunti ad Antiochia di Pisidia, Paolo e Barnaba entrano nella sinagoga nel giorno di sabato e, dopo la lettura della Legge e dei Profeti, vengono invitati a rivolgere una parola di esortazione (At 13,15). Inizialmente, molti, sia Giudei che proseliti timorati di Dio, accolgono con favore il loro messaggio. Tuttavia, il sabato seguente, “quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo” (At 13,45).

La reazione di questi Giudei, che secondo una logica di fede avrebbero dovuto rallegrarsi per il compimento delle promesse messianiche nel nome di Gesù, si trasforma in aperta ostilità. La "gelosia" è esplicitamente menzionata come motore di questa opposizione. Non si tratta di un semplice dissenso teologico, ma di un'invidia scatenata dal successo degli apostoli e, forse, dalla prospettiva di un messaggio di salvezza che si apriva in modo così evidente anche ai pagani, mettendo in discussione un certo esclusivismo nazionalistico. Questa gelosia può essere vista come una forma corrotta di "zelo" per Dio; uno zelo che, invece di rallegrarsi per l'opera divina, cerca di controllarla o limitarla, temendo una perdita di prestigio o di esclusività.

Questo rifiuto da parte di alcuni membri della comunità giudaica, che culmina con la persecuzione e l'espulsione di Paolo e Barnaba dalla città, diventa paradossalmente il catalizzatore per una svolta decisiva nella missione. L'apparente fallimento si trasforma in un'opportunità per l'evangelizzazione universale, svelando la pienezza del piano di Dio che prosegue oltre le chiusure, con una progressiva rivelazione della vastità del suo amore.

La Forza Interiore: Vivere con la Dignità dei Figli Amati

L'Apocalisse di Giovanni ci trasporta in una dimensione celeste, offrendoci una visione consolante e potente della meta ultima del nostro pellegrinaggio terreno: la comunione gloriosa con Dio.

Dopo le visioni dei sigilli e delle tribolazioni, Giovanni contempla "una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all'Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani" (Ap 7,9). La loro postura, "stavano in piedi", è carica di significato. Non è una semplice posizione fisica, ma un simbolo teologico profondo. Stare in piedi indica la vittoria sulla morte, la partecipazione alla risurrezione di Cristo. È l'atteggiamento di chi, dopo aver attraversato la "grande tribolazione" (Ap 7,14), si presenta con dignità e santa fierezza davanti a Dio. Le vesti candide, lavate e rese tali "nel sangue dell'Agnello", simboleggiano la purezza ottenuta per grazia, la redenzione che li ha resi degni di stare alla presenza divina. Questa "fierezza" e questa gioia non derivano da meriti personali, ma dalla consapevolezza di essere stati salvati e santificati unicamente dal sacrificio dell'Agnello.

Questa visione celeste non è solo una promessa futura, ma una rivelazione della vera dignità dell'essere umano secondo il cuore di Dio, una dignità che ha radici profonde nella nostra condizione di figli amati. La moltitudine dell'Apocalisse, pur venendo "dalla grande tribolazione", non è definita dalle sue sofferenze passate, ma dalla sua condizione attuale di servizio gioioso: "gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio" (Ap 7,15). Questo servizio non è un peso, ma l'espressione della loro dignità redenta e della loro gratitudine traboccante, un modello per la Chiesa pellegrina sulla terra.

Tuttavia, gli ostacoli più pericolosi spesso non sono quelli esterni, ma quelli che albergano nel nostro cuore. Le fatiche nel riconoscerci per quello che siamo davanti a Dio – creature amate immensamente – possono generare sensi di colpa paralizzanti e il timore di non riuscire a rialzarci dopo una caduta. È fondamentale, a questo proposito, distinguere tra il "senso di colpa" distruttivo, che ci imprigiona nell'idea di essere il nostro errore, e il "senso del peccato" costruttivo, che è consapevolezza filiale di essere amati da un Padre misericordioso.

Ascoltare la Voce del Pastore e farla risuonare

Il Vangelo della quarta domenica di Pasqua, tradizionalmente detta "del Buon Pastore", ci offre un'immagine di Gesù di incomparabile tenerezza e forza. Gesù si presenta come il vero pastore, colui che ha un legame intimo e personale con le sue pecore: "Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono" (Gv 10,27). Questa "conoscenza" è un'esperienza profonda, una comunione di vita. Egli "chiama le sue pecore ciascuna per nome" (Gv 10,3), sottolineando l'unicità e il valore di ogni singola persona ai suoi occhi.

La relazione con il Buon Pastore inizia con l'ascolto della sua voce, con l’accoglienza interiore della Parola che plasma e costruisce la persona. Ma il nostro ruolo non si esaurisce nell'ascolto e nella sequela personale; siamo chiamati ad essere noi stessi "voce" del Pastore per coloro tra i quali Egli ci pone. I nostri linguaggi, i nostri atteggiamenti, le nostre scelte quotidiane possono e devono diventare canali attraverso cui la Sua chiamata risuona. Siamo chiamati a incarnare quella stessa tenerezza e quella stessa forza del Pastore, offrendo parole di conforto che non siano nostre, ma eco della Sua Parola, e compiendo gesti che aprano sentieri di vita e speranza. Questo significa essere attenti ai "germogli vitali" di bene presenti negli altri e nel mondo, e nutrirli con la luce del Vangelo. Questo implica anche la capacità di parlare un linguaggio comprensibile all'uomo d'oggi, traducendo la perenne novità del Vangelo in forme accessibili, senza annacquarne la forza profetica. Come Paolo e Barnaba, spinti dalla "parresia" (franchezza) dello Spirito, siamo chiamati a superare timori e resistenze, diventando strumenti affinché altri possano udire la voce del Padre misericordioso e riscoprirsi figli amati, degni di vita eterna.