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L'amore non fa calcoli: la gratuità salva

fr. Maggiorino Stoppa

Quante volte nel nostro cammino ci siamo trovati a un bivio, con una domanda che sorge dal profondo: "Cosa devo fare per dare un senso pieno alla mia vita?". A volte, questa domanda nasce da una sete sincera di verità; altre volte, si maschera, nascondendo le nostre paure e resistenze.

L'incontro tra Gesù e il dottore della Legge (Lc 10,25-37) è la risposta a questo bivio. È un dialogo straordinario in cui Gesù, con pazienza e sapienza, ci aiuta a smascherare proprio quelle paure e resistenze, purificando la nostra domanda. Ci invita a passare da una fede fatta di teorie a una vita trasformata dall'amore concreto, un cammino che ci sposta dal semplice "fare" alla pienezza dell'"essere".

L'intenzione dietro la domanda

Il racconto si apre con una scena carica di tensione. Un dottore della Legge si alza. Non è un gesto casuale, ma un atto formale, quello di chi prende la parola in un'assemblea per sfidare un interlocutore. L'evangelista Luca è ancora più esplicito riguardo alle sue intenzioni, svelando che il suo scopo è "metterlo alla prova".

L’espressione verbale "mettere alla prova" è la medesima usata dagli evangelisti per descrivere la tentazione di Gesù da parte di Satana nel deserto. Questa scelta linguistica ci svela immediatamente la postura del dottore della Legge. Non è un pellegrino in cerca di una guida, come il giovane ricco che si inginocchiò davanti a Gesù, ma un avversario che usa la sua conoscenza della Legge come un'arma.

La domanda, "Maestro, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?", è identica a quella posta dal giovane ricco, ma le intenzioni che la animano sono diametralmente opposte. Nel caso del giovane, l'evangelista Marco annota che Gesù, fissandolo, "lo amò", riconoscendo una sincerità di fondo, seppur ostacolata dall'attaccamento ai beni. La sua tristezza finale è il segno di un cuore combattuto, di un dramma interiore. Il dottore della Legge, invece, non mostra alcuna vulnerabilità. La sua seconda domanda non nascerà da un cuore ferito, ma da un orgoglio intellettuale che cerca di difendersi.

Questo confronto illumina due pericoli spirituali fondamentali e distinti. Il primo è l'attaccamento materiale, che riempie il cuore di beni e non lascia spazio a Dio. Il secondo, forse più sottile e insidioso, è l'orgoglio intellettuale, che usa la conoscenza, anche quella religiosa, come una fortezza per difendere il proprio io e resistere alla chiamata semplice e disarmante dell'amore.

La contraddizione del "fare" per "ereditare"

Nella domanda stessa del dottore della Legge si cela una profonda contraddizione teologica: "Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?". Il verbo "fare" appartiene al registro del merito, del lavoro, di un risultato ottenuto tramite uno sforzo personale. Il verbo "ereditare", invece, ci introduce nel mondo della grazia. Un'eredità non si guadagna; si riceve per il fatto di essere figli. Si può perdere, ma non si può meritare.

Il concetto di "eredità” è centrale in tutta la Scrittura. Nell'Antico Testamento, parte dalla promessa della terra di Canaan, un dono gratuito di Dio al suo popolo. Questo tema si spiritualizza progressivamente: per i leviti e per i salmisti, la vera eredità non è più un pezzo di terra, ma Dio stesso, "mia parte di eredità e mio calice" (Sal 16,5). Nel Nuovo Testamento, questa promessa trova il suo compimento definitivo: Cristo è l'unico, vero "erede di tutte le cose" (Eb 1,2). E noi, per mezzo della fede in Lui, diventiamo figli adottivi e quindi "coeredi di Cristo" (Rm 8,17), destinati a ricevere non più una terra, ma il Regno di Dio, la salvezza, la vita eterna, che è una partecipazione alla vita stessa del Risorto.

Il dottore della Legge, dunque, rivela la sua confusione spirituale nella sua stessa domanda. Vuole la sicurezza di un dono (l'eredità) ma pretende di ottenerla attraverso il controllo delle proprie azioni (il fare). Desidera i frutti della figliolanza senza entrare nella relazione di un figlio. Tutta la risposta di Gesù, che culmina nella parabola, è un capolavoro pedagogico volto a sanare questa frattura. Egli non nega l'importanza del "fare", ma lo sradica dal terreno arido della legge per ripiantarlo nel suolo fertile della grazia e della compassione.

La psicologia di un cuore sulla difensiva

Messo alle strette dalla risposta di Gesù, che approva la sua sintesi della Legge ("Fa' questo e vivrai", v. 28), il dottore si trova in una posizione scomoda. Il suo tranello è fallito e si ritrova in accordo teorico con il suo avversario. È a questo punto che egli rivela la sua strategia difensiva.

Il testo dice che egli pone la seconda domanda "volendo giustificarsi". Non cerca giustizia, ma auto-giustificazione. Deve salvare la faccia, ristabilire la sua superiorità intellettuale e dimostrare che il comandamento, così semplice in apparenza, è in realtà terribilmente complesso e richiede l'intervento di esperti come lui.

Questa è una dinamica psicologica e spirituale universale. Spesso, la nostra resistenza al Vangelo non si manifesta con un rifiuto diretto, ma con un tentativo di complicare le sue esigenze. Di fronte alla chiamata radicale e disarmante ad amare, è più comodo trasformarla in un problema intellettuale da dibattere all'infinito, piuttosto che in un'azione da compiere qui e ora. Questa "paralisi da analisi" è una forma sottile di auto-giustificazione, un modo per tenere a distanza la Parola che ci interpella.

Con la domanda "E chi è mio prossimo?" il dottore della Legge cerca di definire, e quindi di limitare, i confini dell'amore. Vuole creare delle "caselle", dei "perimetri" per poter classificare le persone e decidere a chi è dovuto il suo amore e a chi no. Questo approccio trasforma il comandamento in un dovere gestibile e finito, addomesticando la sua portata infinita. È il pericolo di una fede vissuta come una lista di controllo, dove l'importante è spuntare le caselle dei doveri compiuti per sentirsi "a posto", senza mai lasciarsi coinvolgere nella dinamica imprevedibile, disordinata e senza limiti dell'amore reale.

L'atteggiamento del sacerdote e del levita, descritti nella parabola, riflettono esattamente quello del dottore della Legge. Di fronte all'uomo ferito, entrambi "videro e passarono oltre, dall'altra parte". Le ragioni dei personaggi della parabola possono essere molteplici: la paura di contaminarsi ritualmente toccando sangue o un cadavere; la paura che i briganti fossero ancora nei paraggi; o la semplice indifferenza. In ogni caso, il movimento spirituale del dottore della Legge è il medesimo: il sacerdote e il levita "passano oltre" l'uomo ferito rifugiandosi dall'altra parte della strada; il dottore della Legge "passa oltre" il cuore del comandamento rifugiandosi nella sua mente. Tutti e tre usano una forma di "legge" – che sia la casistica intellettuale o le norme di purità rituale – come pretesto per non amare. La mancanza d'amore non è solo un'assenza di sentimento, ma una scelta deliberata di creare distanza, sia essa fisica o mentale.

Il rovesciamento dei pregiudizi religiosi e sociali

La risposta di Gesù non è una definizione, ma una storia. Una storia che non solo risponde alla domanda, ma la demolisce e la ricostruisce su fondamenta completamente nuove, sovvertendo ogni categoria religiosa, sociale e teologica del suo interlocutore.

L'eroe della parabola è un Samaritano. Per un ebreo del tempo di Gesù, e in particolare per un dottore della Legge, questa scelta era scandalosa. I Samaritani erano considerati eretici, meticci e nemici storici del popolo giudeo. Presentare un Samaritano come modello di virtù e, al contempo, le figure ufficiali della religione (sacerdote e levita) come esempi negativi, era un attacco frontale all'intero sistema di valori del suo uditorio. La prova di questo shock è nel finale: quando Gesù gli chiede chi si sia fatto prossimo, il dottore non riesce nemmeno a pronunciare la parola "Samaritano", ma risponde elusivamente: "Chi ha avuto compassione di lui".

In questo rovesciamento, Gesù opera una radicale ridefinizione della santità. Per il dottore della Legge, la santità consisteva nella correttezza dottrinale, nell'osservanza rituale e nell'appartenenza al popolo eletto. Il sacerdote e il levita incarnano questa santità, che però si rivela sterile e impotente di fronte alla sofferenza umana. Il Samaritano, invece, incarna una santità diversa, definita non dallo status ma dall'azione.

Il vero culto non è l'osservanza dei riti, ma il servizio a un corpo ferito. Il Samaritano non si è fermato a pensare se ne valesse la pena o se quell'uomo rientrasse nelle sue "categorie". Ha agito e basta, mosso solo dalla compassione. Ci insegna così la lezione più grande: l'amore non fa calcoli. È questa la gratuità che salva: quella che ha mosso lui e quella con cui Dio, in Cristo, si china ogni giorno sulle nostre ferite per riportarci alla vita.