La porta stretta del cuore: dalla paura di salvarsi alla gioia di lasciarsi amare
fr. Maggiorino Stoppa
«Signore, sono pochi quelli che si salvano?» (Lc 13,23). In questa domanda, posta quasi a bruciapelo da un tale a Gesù, c'è tutta la nostra umana ansia. C’è la paura di non essere all’altezza, il timore di un giudizio, il dubbio di non far parte di un numero ristretto di eletti. È la preoccupazione di chi guarda il mondo e lo divide in buoni e cattivi, in salvati e perduti, e si chiede da che parte si troverà alla fine. È una domanda che nasce da un cuore contratto, che misura, calcola e teme. Ma la risposta di Dio, che risuona potente fin dalle pagine antiche dei profeti, non è un numero. È un sogno.
Un sogno grande come il mondo
Mentre noi ci affanniamo a contare, il profeta Isaia ci spalanca davanti un orizzonte sconfinato. Dio non parla di un piccolo resto, ma sogna di radunare «tutte le genti e tutte le lingue» (Is 66,18). La sua non è una casa per pochi intimi, ma una montagna santa verso cui converge un’umanità intera. L’immagine è potente, quasi cinematografica: una carovana immensa, un pellegrinaggio di popoli che arrivano da ogni angolo della terra, dai luoghi più remoti e sconosciuti, «su cavalli, su carri, su portantine, su muli, su dromedari» (Is 66,20).
Questa varietà di mezzi non è un dettaglio casuale. È il simbolo di una Chiesa universale, dove ciascuno arriva con la propria storia, la propria cultura, il proprio passo. Nessuno è escluso. Anzi, la profezia si spinge fino a un punto inaudito: Dio prenderà persino da questi popoli lontani i suoi sacerdoti (Is 66,21). È il rovesciamento di ogni logica di privilegio e di esclusione. Il sogno di Dio è un abbraccio che non conosce confini, una comunione dove la diversità non è un ostacolo, ma una ricchezza.
Perché, allora, se il desiderio di Dio è così ampio, Gesù ci parla di una «porta stretta»?
L'illusione della vicinanza
Gesù non risponde direttamente alla domanda su "quanti" si salvano. Sposta l'attenzione dal calcolo alla responsabilità personale, dal giudicare gli altri al mettersi in gioco. E qui ci mette in guardia da un'illusione tanto sottile quanto pericolosa: l'illusione della familiarità.
Coloro che rimangono fuori, a bussare a una porta ormai chiusa, non sono estranei o pagani. Sono persone che possono vantare una certa vicinanza con il Signore: «Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze» (Lc 13,26). In termini moderni, potremmo dire: “Siamo sempre venuti in chiesa, abbiamo ricevuto i sacramenti, abbiamo ascoltato le omelie”. Eppure, la risposta del Signore è gelida: «Non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!» (Lc 13,27).
Stare alla presenza di Dio non basta. Ascoltare la sua Parola non è sufficiente. La fede non è una questione di abitudine, di frequentazione esteriore o di appartenenza culturale. Si può vivere una vita intera accanto a Cristo senza mai incontrarlo veramente, senza mai lasciarsi trasformare dal suo sguardo e dalla sua Parola. Si può rimanere in superficie, in quelle acque basse e sicure dove si conosce tutto di Dio, ma non si conosce Dio. E una fede che non si traduce in scelte concrete di giustizia, di amore e di servizio, è una fede che non ci rende riconoscibili agli occhi del Padre.
La porta stretta che ci rende veri
Ecco allora che la porta stretta assume un significato nuovo. Non è un crudele test di ammissione per filtrare i migliori, ma un passaggio necessario per diventare veri. Non è una porta che Dio chiude per escludere, ma una soglia che ci invita a spogliarci di ciò che ci impedisce di amare.
La porta stretta è la porta della minorità, dello spogliamento. È un varco attraverso cui il nostro ego, la nostra superbia, la nostra autosufficienza, le nostre false sicurezze semplicemente non passano. Per attraversarla, bisogna farsi piccoli, leggeri, umili. Bisogna lasciare fuori il peso delle nostre pretese, la zavorra del nostro orgoglio, la convinzione di avere dei meriti da accampare.
Scegliere di passare per la porta stretta significa compiere ogni giorno l’atto di non mettere noi stessi al centro, ma di fare spazio a Dio e agli altri. Paradossalmente, questo impegno dissolve l’ansia che ci porta a chiederci "quanti si salvano". Quando ci dedichiamo a questo processo, la domanda non è più "Riuscirò a salvarmi?", bensì "Come posso amare di più? Come posso essere più umile?".
Una porta spalancata per chi si fa piccolo
Lo sforzo per entrare, quella lotta che il Vangelo definisce con il termine agōnìzomai (lottare, combattere), non è un'impresa solitaria: siamo accompagnati e sostenuti da un Padre che desidera ardentemente la nostra crescita (cfr. Eb 12,7-7).
Alla fine, la porta non è un ostacolo, ma una Persona. È Cristo stesso che dice: «Io sono la porta» (Gv 10,9). Non ci attende un giudice severo, ma Colui che è il passaggio verso la vita. Attraversarla non significa conquistare un merito, ma accogliere l'invito a diventare così umili e piccoli da poter essere avvolti da un amore infinito.
Il messaggio centrale che ci giunge dalla Parola di Dio è chiaro: la strettoia non riguarda la generosità di Dio, ma il nostro io. La porta è stretta per chi è pieno di sé, ma diventa incredibilmente ampia, spalancata, per chi sceglie di farsi piccolo, di amare e di lasciarsi amare.
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