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Impastati di terra, chiamati a essere roccia.

fr. Maggiorino Stoppa

Ogni grande opera della vita umana poggia su un fondamento. Che si tratti di costruire una casa, avviare un progetto o far crescere una famiglia, cerchiamo istintivamente un terreno solido, presupposti validi, una base affidabile su cui edificare il futuro. È una legge universale, iscritta nella nostra esperienza. Per questo, guardando alla Chiesa, il grande progetto di Dio nella storia, ci aspetteremmo di trovare fondamenta di marmo impeccabile, colonne di perfezione incrollabile. Invece come pilastri portanti troviamo Pietro e Paolo che a uno sguardo più attento si rivelano essere tutto fuorché perfetti. Sono le fondamenta, eppure sono impastate della nostra stessa, fragile umanità.

Per comprenderli, e per comprendere il modo in cui Dio agisce, occorre partire da una parola chiave: umiltà. Non nel senso di una virtù dimessa o di un'autodenigrazione, ma nel suo significato più profondo e originario. La parola "umile" deriva dal latino humilis, che a sua volta viene da humus, la terra. Essere umili significa, prima di tutto, riconoscersi "di terra", creature legate al suolo, impastate di polvere. Pietro e Paolo sono uomini di humus. Ma la terra, nella sapienza biblica e contadina, non è solo bassezza; è soprattutto fertilità. L'humus è il terreno fertile, la condizione necessaria perché un seme possa germogliare e portare frutto. Dio non sceglie questi uomini nonostante la loro fragilità terrena, ma forse proprio grazie a essa. La loro umanità non è un difetto da correggere, ma il terreno fertile, l'unica condizione possibile per accogliere il seme della Grazia e permettergli di crescere in una pianta rigogliosa.

Pietro, la roccia impastata di terra

Simone di Betsaida è l'archetipo dell'uomo di terra. Un pescatore del lago di Galilea, un uomo concreto, abituato alla fatica e, talvolta, all'insuccesso. La sua istruzione non è quella dei dotti di Gerusalemme, ma quella impartita dal sole, dal vento e dalle reti. In una scena memorabile, dopo una notte di lavoro andata a vuoto, proprio lui, il pescatore esperto, riceve da un falegname, Gesù, l'indicazione che porterà a una pesca miracolosa. La reazione di Simone non è di orgoglio ferito, ma di stupore e di un'immediata, schiacciante percezione della propria inadeguatezza: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore» (Lc 5,8). In quel momento, riconosce tutto il suo humus, la sua terra di fronte alla santità di Dio.

Il suo carattere è un groviglio di contraddizioni che lo rendono incredibilmente vicino a noi. È testardo, caparbio. Lo vediamo quando rifiuta categoricamente che Gesù gli lavi i piedi, aggrappato alla sua logica umana di potere e servizio, incapace di accogliere il gesto rivoluzionario del Maestro. Lo è ancora di più quando, subito dopo averlo riconosciuto come il Messia, si permette di rimproverarlo per l'annuncio della Passione, perché non riesce a concepire un Salvatore sofferente. Eppure, questa stessa testardaggine, una volta purificata dalla Grazia, diventerà la perseveranza incrollabile, la roccia su cui si poggerà la fede della prima comunità di fronte alle persecuzioni.

Accanto alla testardaggine, c'è la paura. La sua presunzione di essere pronto a morire per Gesù si sgretola nel cortile del sommo sacerdote, di fronte alla domanda di una serva. Lì, Pietro ha paura, e quella paura lo porta a rinnegare per tre volte il suo Maestro. È un uomo travolto dall'istinto di sopravvivenza, in cui ogni promessa svanisce di fronte al pericolo imminente. È impulsivo, pronto a sguainare la spada nel Getsemani e un attimo dopo a fuggire. È sicuro di sé, fino al punto da contraddirlo apertamente, per poi cadere rovinosamente.

In tutto questo, il Signore non sceglie di cancellare la personalità di Simone per creare Pietro. Al contrario, la assume, la redime e la trasforma. Le sue debolezze non vengono eliminate, ma diventano il luogo della sua forza. Proprio perché ha conosciuto l'abisso del rinnegamento, potrà comprendere e "confermare i suoi fratelli" nella fede (Lc 22,32). Proprio perché ha pianto amaramente la sua fragilità, potrà rispondere per tre volte alla domanda di Gesù sulle rive del lago: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene» (Gv 21,17). Il suo ministero di pastore non nasce dalla sua perfezione, ma dalla sua esperienza di essere un peccatore perdonato. La sua autorità è fondata sulla misericordia ricevuta.

Paolo, lo zelo e la spina

Se Pietro è l'uomo della terra semplice, Paolo di Tarso è l'esatto opposto. È un uomo di statura intellettuale e sociale immensa. A differenza di Pietro, è un uomo colto, formato a Gerusalemme "alla scuola di Gamaliele", una delle più prestigiose dell'epoca, che lo rese un esperto della Legge e delle tradizioni dei padri. È un uomo di tre mondi: ebreo per religione e zelo, greco per cultura e lingua, e cittadino romano per nascita, un privilegio raro e prezioso che userà più volte per proteggere la sua missione e appellarsi a un giudizio equo. È un uomo di grandi certezze, di uno zelo così ardente da renderlo un persecutore spietato dei cristiani.

Dove trovare l'humus, la terra fertile, in un uomo così forte, così sicuro di sé? Dio, nella sua sapiente pedagogia, gliela fornisce. Se a Pietro rafforza le sue debolezze evidenti, a Paolo, l'uomo forte, permette una debolezza per temperare il suo vigore. È la misteriosa "spina nella carne" di cui parla nella Seconda Lettera ai Corinzi (2Cor 12,7). Gli studiosi hanno formulato innumerevoli ipotesi su cosa fosse: una malattia cronica, un difetto di pronuncia, una tentazione spirituale o l'ostilità continua dei suoi avversari. Ma al di là della sua natura precisa, ciò che conta è il suo scopo teologico, che Paolo stesso rivela: gli è stata data "perché non montassi in superbia" a causa delle straordinarie rivelazioni ricevute.

Questa spina è un "angelo di Satana" che lo schiaffeggia, un'umiliazione costante che gli impedisce di attribuire a se stesso la potenza del suo ministero. Per tre volte, Paolo prega il Signore di liberarlo, ma la risposta che riceve è una delle rivelazioni più profonde di tutto il Nuovo Testamento: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». La forza di Paolo non sta nell'eliminazione della spina, ma nella grazia che gli permette di portarla. Quella debolezza persistente diventa il suo personale humus, il terreno che lo costringe a dipendere totalmente da Dio, assicurando che ogni frutto del suo apostolato sia inequivocabilmente opera della potenza divina e non del suo talento umano.

Lontano dalle certezze per trovare la verità

Il Vangelo di Matteo colloca la confessione di Pietro in un luogo tanto preciso quanto significativo: la regione di Cesarèa di Filippo. La scelta non è casuale. Cesarèa di Filippo non è Gerusalemme. È terra pagana, all'estremo nord di Israele. Il suo nome stesso è un omaggio a un dio terreno, Cesare, e al sovrano locale, Filippo. Sorgeva vicino a un santuario dedicato al dio Pan e a una grotta che la credenza popolare riteneva essere una delle "porte degli inferi".

È qui, lontano dal Tempio, lontano dai dottori della Legge, lontano da chi pensa di sapere già tutto su Dio, che Gesù conduce i suoi discepoli. Li porta fuori dalle loro sicurezze, li allontana dalla pressione ideologica e politica che a Gerusalemme caricava il titolo di "Messia" di attese nazionalistiche. Questo spostamento geografico è necessario per una chiarificazione teologica. Gesù inizia con una domanda generale: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell'uomo?». Le risposte che riceve sono echi del passato, opinioni di seconda mano: Giovanni Battista, Elia, Geremia. È il "si dice" della folla.

Poi, il colpo di scena. Gesù sposta il focus dal generale al personale, dal sentito dire al vissuto: «Ma voi, chi dite che io sia?». È come se dicesse: "Ora, dimenticate per un attimo il catechismo che avete ricevuto, le attese del popolo, tutto ciò che pensate di sapere. Qui, in questa terra straniera, di fronte ai poteri del mondo e alle porte della morte, rispondete con il cuore: per te, chi sono io?". È un invito a spogliarsi delle definizioni imparate per arrivare a una fede personale, a una rivelazione. La risposta di Pietro, «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente», non è il frutto di un ragionamento teologico, ma un dono che viene dall'alto, possibile solo perché Gesù li ha condotti in un luogo di spoliazione, dove le vecchie categorie non bastano più.

Il capovolgimento della fede: credere in un dio che crede in noi

Arriviamo così al cuore della questione, al capovolgimento più vertiginoso della nostra fede. Potrebbe sembrare che la sfida più grande sia fidarsi di Dio. In fondo, Egli è Dio, l'Onnipotente, il Fedele. Ma le storie di Pietro e Paolo ci rivelano una verità ancora più sconcertante e difficile da accettare: la vera sfida è avere fede in un Dio che, per primo, ha fede in noi.

Pensiamoci. A Pietro, che pochi istanti dopo lo rimprovererà e che sa lo rinnegherà, Gesù affida un compito smisurato: «A te darò le chiavi del regno dei cieli» (Mt 16,19). Non aspetta che Pietro diventi perfetto. Non gli chiede una prova di affidabilità. Gli affida il suo tesoro più grande nel momento della sua massima incomprensione. È un atto di fiducia apparentemente sconsiderato, che sovverte ogni logica umana di merito e competenza.

Lo stesso accade con Paolo. A Saulo, il persecutore, l'uomo che sta cercando di distruggere la sua Chiesa, Cristo risorto non chiede prima un lungo percorso di penitenza. Gli dice semplicemente: «Va', perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi alle genti» (At 9,15). Affida il Vangelo ai pagani nelle mani del suo più grande nemico.

Questa è la logica della Grazia. Non è la nostra fedeltà a guadagnare la fiducia di Dio; è la fiducia incondizionata di Dio che rende possibile la nostra fedeltà. Egli crede nella bontà della sua creazione, crede nel tesoro che ha nascosto nel nostro campo, anche quando noi vediamo solo erbacce. La nostra fede non è uno slancio eroico verso l'alto, ma una risposta umile e grata a un amore che si è già chinato su di noi e ci ha detto: "Io mi fido di te".

C'è posto per tutti

Il pescatore ignorante e l'intellettuale raffinato. L'uomo impulsivo che inciampa a ogni passo e il pensatore sistematico tormentato da una debolezza. Pietro e Paolo non potrebbero essere più diversi. E proprio in questa loro radicale diversità risiede una promessa meravigliosa: nella Chiesa c'è posto per tutti. Non esiste un temperamento, una storia personale, un tipo di fragilità che possa escluderci dalla chiamata di Dio.

Le nostre imperfezioni, le nostre paure, le nostre "spine nella carne", i nostri passati di rinnegamento o persino di ostilità non sono un ostacolo per Dio. Al contrario, sono proprio il luogo privilegiato in cui la sua fiducia si manifesta e la sua potenza si perfeziona nella debolezza. Siamo tutti humus, terra che può sembrare povera, ma che nelle mani del divino Agricoltore può diventare incredibilmente fertile. Siamo tutti chiamati a diventare "pietre vive", costruite non sulla nostra forza, ma sulla roccia incrollabile della fiducia che Cristo ha riposto in noi.

E tu, in quale angolo della tua terra, in quale crepa della tua roccia, senti oggi il Signore che ti sussurra: "Mi fido di te. Seguimi"?