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Il pane spezzato: la logica divina del dono che sazia il mondo

fr. Maggiorino Stoppa

Il pane spezzato: la logica divina del dono che sazia il mondo

C'è un'ora del giorno, e della vita, in cui ogni energia sembra esaurita e le soluzioni svaniscono all'orizzonte. È l'ora del crepuscolo, quando la luce declina e le ombre si allungano. Il Vangelo di Luca ci conduce proprio in questo momento, in un "luogo deserto" (Lc 9,12). Gesù ha parlato per ore, ha guarito, ha accolto. Attorno a lui, una folla immensa, circa cinquemila uomini. Sono affamati, stanchi, e il deserto non offre riparo né cibo.

Questa scena non è un semplice dettaglio di cronaca, ma una potente metafora della condizione umana. Il "luogo deserto" è lo spazio interiore ed esteriore dove sperimentiamo il nostro limite, la sproporzione tra i bisogni immensi che ci circondano e la povertà delle nostre risorse. È l'esperienza della crisi, del sentirsi inadeguati, dello smarrimento di fronte a una fame – di pane, di senso, di speranza – che appare troppo grande per noi.

In questa situazione di impasse, i Dodici si fanno avanti con una proposta ragionevole, quasi ovvia. La loro analisi è lucida e pragmatica: "Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo" (Lc 9,12). La loro non è una reazione malvagia; è la reazione della logica umana di fronte a un problema insormontabile. È la tentazione, sempre presente, di gestire il bisogno allontanandolo, delegando la soluzione ad altri, sperando che il problema si risolva da sé, lontano dal nostro sguardo. I discepoli vedono il problema, misurano le loro forze e non hanno ancora compreso che il Signore non li ha chiamati per essere abili gestori di problemi, ma canali della sua grazia. La loro proposta, apparentemente premurosa, prepara il terreno per il capovolgimento radicale che Gesù sta per operare, una rivoluzione che scardina la logica della scarsità per inaugurare quella del dono.

"Date voi stessi"

Di fronte alla soluzione pragmatica dei discepoli, Gesù risponde con una frase che sposta l'asse dell'intera questione, una frase che è al contempo un comando e una rivelazione: "Voi stessi date loro da mangiare" (Lc 9,13). L'interpretazione di queste parole non può fermarsi alla superficie. La costruzione della frase, infatti, suggerisce un significato più profondo del semplice "procurate voi il cibo". Diversi esegeti, antichi e moderni, hanno colto in questa espressione un'eco potente: "Date voi stessi da mangiare", ovvero, "datevi come cibo". Questa lettura, teologicamente densa illumina il cuore del mistero che si sta svelando.

Gesù non sta semplicemente assegnando un compito impossibile. Sta rivelando ai suoi discepoli la loro vera identità e vocazione. La loro risposta immediata è un inventario della loro miseria: "Non abbiamo che cinque pani e due pesci" (Lc 9,13). Essi ragionano ancora secondo la logica dell'avere, del possesso. La loro attenzione è fissa su ciò che manca. Gesù, invece, li invita a spostare lo sguardo da ciò che hanno (o non hanno) a ciò che sono. La vera risorsa non è contenuta nelle loro bisacce, ma nella loro stessa persona, nella loro capacità di farsi dono, di offrire il proprio tempo, le proprie energie, la propria vita.

Si delinea qui un passaggio fondamentale da un'economia del possesso a un'economia del dono, che è la vera economia del Regno di Dio. Il ragionamento dei discepoli è chiaro: la percezione della scarsità materiale genera una soluzione basata sulla separazione ("congeda la folla") o sull'acquisto di cibo ("a meno che non andiamo noi a comprare viveri"). Entrambe le opzioni mantengono una distanza di sicurezza tra loro e la folla, proteggendoli dal coinvolgimento totale. Il comando di Gesù spezza questa logica. Egli non nega la realtà della povertà materiale, ma la trasfigura. Insegna che la vera miseria non è la mancanza di beni, ma l'incapacità di vedersi come un dono per l'altro. La fede non cancella magicamente il problema, ma cambia radicalmente il modo di affrontarlo: non più con il calcolo e la distanza, ma con la fiducia e la donazione di sé.

Spezzare, non moltiplicare

È significativo che in nessuno dei quattro racconti evangelici di questo evento compaia mai il verbo "moltiplicare". Questa non è una svista, ma una scelta teologica importantissima. Il concetto di "moltiplicazione" appartiene alla logica umana dell'accumulo, della produzione quantitativa, del potere che si manifesta nell'aumento delle risorse. È una logica che, in modo paradossale, spesso non appaga, ma alimenta ulteriormente il desiderio, poiché non riesce a trasformare la naturale inclinazione umana all'egoismo.

Il verbo che gli evangelisti usano è "spezzare". A differenza del moltiplicare, che può essere un atto solitario di potere, lo spezzare è un gesto intrinsecamente relazionale e comunitario. Si spezza il pane solo per condividerlo. È un atto che implica vulnerabilità, apertura, dono. Nello spezzare il pane, si spezza l'egoismo che c'è nell'uomo. Il miracolo, quindi, non è prima di tutto nel pane, ma nel cuore delle persone, che passano dalla logica della trattenere a quella del condividere.

Gesù compie una vera e propria liturgia, anticipando i gesti che compirà nell'Ultima Cena e che la Chiesa ripete in ogni Eucaristia:

  1. Prese: Gesù non crea dal nulla. Prende il poco che i discepoli hanno, i cinque pani e i due pesci. Con questo gesto, Egli valorizza il contributo umano, per quanto irrisorio possa sembrare. Accoglie la nostra povertà e la fa diventare il punto di partenza del suo miracolo.
  2. Alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione: Questo non è un atto magico, ma un gesto di relazione filiale. Gesù collega la terra al cielo, mostrando che il suo potere non è autonomo, ma proviene dal Padre, fonte di ogni dono. La benedizione è un "dire-bene" di Dio, un atto di ringraziamento che riconosce la vera origine di tutto ciò che esiste.
  3. Li spezzò: È il gesto centrale, il cuore del miracolo. È l'atto del dono di sé che rende il cibo condivisibile e sovrabbondante. Questo pane spezzato è una profezia del suo stesso corpo, che sarà spezzato sulla croce per la vita del mondo.
  4. Li dava: Gesù non distribuisce il pane direttamente, ma lo affida ai discepoli. Essi, che prima volevano congedare la folla, ora ne diventano i servitori. Non sono i padroni di quel pane, ma i canali attraverso cui il dono di Dio raggiunge tutti.

L'episodio mette in scena una vera e propria battaglia teologica tra due verbi, che rappresentano due visioni del mondo. La proposta dei discepoli si fonda sul verbo comprare, che appartiene alla sfera del mercato, della transazione, dove si ottiene qualcosa solo in cambio di denaro. La soluzione di Gesù si realizza nel verbo spezzare, che appartiene alla sfera del dono, della gratuità. Gesù dimostra che la logica del dono è infinitamente più potente e generativa della logica del mercato. Mentre il comprare avrebbe esaurito le poche risorse, lo spezzare genera un'abbondanza tale da lasciare dodici ceste di avanzi, simbolo della pienezza per il nuovo Israele, il popolo saziato non dal potere economico, ma dall'amore gratuito di Dio.

Un annuncio fatto di carne e sangue

La liturgia che Gesù improvvisa nel deserto, con i suoi gesti solenni – prendere, benedire, spezzare, dare – non è un evento isolato. Trova il suo significato più profondo e la sua perenne attualità nel mistero dell'Eucaristia, come ci viene consegnato dall'apostolo Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (1Cor 11,23-26). Il gesto del "pane spezzato" nel deserto è la profezia; le parole di Paolo sull'ultima Cena ne sono il compimento e la spiegazione per la vita della Chiesa.

L'apostolo scrive: "Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga" (1 Cor 11,26). Cosa significa "annunciare la morte del Signore", se non proclamare la vittoria di quella stessa logica del dono di sé che abbiamo visto all'opera nel deserto? Si annuncia che Dio non salva con il potere che accumula, ma con l'amore che si spezza e si dona fino alla fine. L'annuncio, quindi, non è affidato primariamente alle parole, ma allo stesso gesto di "mangiare e bere". È una proclamazione fatta con la vita: la Chiesa, nutrendosi del Corpo di Cristo, si impegna a diventare essa stessa corpo donato per gli altri.

Ed è qui che il richiamo di Paolo ai Corinzi si salda potentemente con la scena evangelica. L'apostolo rimprovera una comunità dove, celebrando l'Eucaristia, si creano divisioni: i ricchi mangiano per conto loro, lasciando i poveri affamati (1 Cor 11,21). I Corinzi, di fatto, ripetevano in un altro modo l'errore dei discepoli: di fronte alla fame del fratello, sceglievano la logica della separazione invece di quella della condivisione. Disprezzavano il corpo dei loro fratelli più poveri, rendendo menzognera la loro celebrazione.

Ecco allora che il monito a "riconoscere il corpo del Signore" (1 Cor 11,29) acquista una luce potentissima. Riconosere il corpo significa riconoscere lo stesso Cristo presente nel pane consacrato sull'altare, nel corpo affamato della folla nel deserto e nel corpo umiliato del fratello povero nella comunità. Separare queste presenze, dividere la comunione con Cristo nel sacramento dalla comunione con i fratelli nella vita, significa svuotare l'Eucaristia del suo significato e tradire il suo annuncio. Vivere del "pane spezzato" significa impegnarsi a diventare, come Chiesa, un corpo unito che si spezza per la vita del mondo.