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NON aver paura di innamorarsi troppo

  • a calendario: OFF
  • Citazione: «L'amico di Dio, Francesco, per molti anni si prodigò, assieme ai suoi frati, nell'annuncio del Vangelo della pace nella città di Roma e nelle regioni vicine, riportando a Dio, da commerciante molto avveduto qual era, il talento ricevuto ridondante di cospicui interessi. Ma venne l'ora per lui di tornare da questo mondo a Cristo, per ricevere, come mercede delle sue fatiche, la corona della gloria che Dio ha promesso a coloro che lo amano» (Ruggero 11: FF 2292).
  • PdD: Mt 25,14-30
  • In Bacheca: ON
  • Giorno: XXXIII Domenica del Tempo Ordinario (anno A)

(Mt 25,14-30)

Nella 33° domenica del Tempo Ordinario la liturgia ci presenta la terza parabola relativa alla “venuta del figlio dell’uomo”. In qualche modo possiamo considerare la parabola dei talenti, o dei servi fedeli come la continuazione del brano di vangelo ascoltato nella 32° domenica, dove Gesù, dopo aver raccontato la parabola delle dieci vergini, concludeva con un invito a vegliare: «Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora» (Mt 25,13). Ora, il testo di Matteo prosegue con l’espressione «Avverrà infatti», letteralmente «Come infatti». Ci deve essere, quindi, un nesso tra l’invito a pregare e la parabola introdotta. Ancora nella parabola di domenica scorsa si notava come vegliare non significhi semplicemente stare svegli durante la notte: infatti tutte quelle vergini si sono addormentate, e questo non è stato criticato. Ora l’evangelista ci spiega come vegliare. Capiamo che la vigilanza deve ispirare le nostre occupazioni quotidiane. Vegliare è “fedeltà nelle piccole cose”.

Possiamo dividere la parabola in due parti:

  • vv. 14-19: il racconto della vicenda;
  • vv. 20-30: il dialogo tra il padrone e i servi.

Il racconto della vicenda

«un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni». Un uomo dovendosi assentare, affinché il suo capitale non rimanga infruttuoso, consegna nella forma di talenti il suo capitale ai servi. Il talento è un’unità di peso di 30-40 Kg d’oro, corrispondeva a 6000 denari, e poiché un denaro è il corrispettivo di una giornata di lavoro (cfr. Mt 20,2) si tratta di una somma ingente.

Molte volte confondiamo questi talenti con le capacità naturali (che in effetti usiamo chiamare talenti), ma non può essere così. Infatti il brano dice: «secondo la capacità (dýnamis) di ciascuno», evidentemente non si tratta delle doti naturali ad essere distribuite secondo le capacità, semmai sono le capacità che dipendono dalle doti che uno ha. Allora in che cosa consistono i talenti?

È chiaro che il padrone della parabola rappresenta Cristo che «consegnò loro i suoi beni». Il verbo che viene utilizzato è paradídōmi, che significa consegnare a qualcuno qualcosa da conservare, utilizzare, curare, gestire. Ciò che Cristo ha consegnato è il suo messaggio evangelico, che comprende l’amore per il Padre, per l’umanità e l’olio della Misericordia della parabola precedente (cfr. "Va' sicura... hai buona scorta"). Colpisce anche che non a tutti viene data la medesima quantità di talenti, perché la consegna è personale e tiene, appunto, conto delle capacità di ognuno. Si capisce però che ognuno dovrà farne buon uso e dovrà renderne conto.

Due servi “investono” il capitale ricevuto (non è detto in che modo: “trafficano” i talenti) e lo raddoppiano. Un terzo servo «andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro», il che non rappresenta un comportamento irragionevole, ma una forma di assicurazione contro i ladri. Anche la Mishnah, che è una raccolta scritta delle tradizioni orali ebraiche conosciute al tempo di Gesù, precisa che “c’è tutela per il denaro solo sotto terra” (Baba’ Mezi ‘a’ 42a).

«Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro». Qui finisce la parte narrativa.

Il dialogo tra il padrone e i servi.

Dopo il racconto si passa ora alla lezione della parabola che viene affidata al dialogo che il padrone intrattiene separatamente con i servi. I primi due vengono lodati, il loro comportamento è quello raccomandato. Il padrone dice: «sei stato fedele nelpoco, ti darò potere sumolto». È vero che i talenti ricevuti equivalgono ad un valore molto alto ma sono poca cosa rispetto a quello che il Signore promette che è l’ingresso nel Regno: «prendi parte alla gioia del tuo padrone».

Il terzo servo non ha guadagnato nulla perché ha seppellito il talento. Rivela di aver agito per paura della durezza e severità del suo padrone. La definizione che dà del padrone, come di «un uomo severo», gli serve come scusa per nascondere la sua pigrizia e la sua fuga dalle responsabilità. In realtà, questo servo non ha mai accettato il dono e non ha mai riconosciuto la gratuità del suo padrone, infatti è l’unico che restituisce ciò che ha ricevuto dicendo «ecco ciò che è tuo».

Il Signore dice, «Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso», ripete in parte le parole usate dal servo per giustificarsi ma omette una cosa: che egli sia un uomo «duro». Sebbene questa sia una parabola del giudizio e non della misericordia, neppure in sede giudiziale è lecito dire che il Signore sia “duro”.

In conclusione, la vigilanza non è solo l’attesa paziente della parusia (la venuta di Gesù alla fine dei tempi), tanto meno un'attesa paralizzante del giudizio, ma il miglior uso del dono più bello che il Signore ci ha fatto che è il suo Spirito, La sua stessa presenza nella nostra vita, la sua parola. Far fruttare il talento significa annunciare il Vangelo di Gesù senza paura, oggi, come sempre, anche uscendo dagli schemi come solo sa fare chi ama.