Skip to main content

Fratelli tutti

  • a calendario: OFF
  • In Bacheca: ON
  • Giorno: XXXI Domenica del Tempo Ordinario (anno A)

(Mt 23,1-12)

Dopo le diatribe di Gesù con i suoi avversari, che hanno occupato le due domeniche precedenti, il vangelo di questa XXXI domenica del tempo ordinario ci presenta, con i primi dodici versetti del capitolo 23 di Matteo,  l’inizio del quinto e ultimo grande discorso di Gesù riportato da questo evangelista. 

Pur senza entrare nei dettagli, bisogna dire che se i singoli detti raccolti in questo capitolo sono senz’altro attribuibili a Gesù, la loro disposizione in unità tematica è opera redazionale di Matteo. Questo non deve stupire, è normale che l’evangelista abbia voluto preparare un insegnamento da impartire alla sua chiesa in Antiochia di Siria negli anni 80, travagliata dalla difficoltosa rottura con il giudaismo, ma anche da un fariseismo strisciante e subdolo, infiltratosi tra i credenti. Per questa ragione sono contenute una serie di invettive contro scribi e farisei, pur rivolgendosi, Gesù, alle folle e ai discepoli. Possiamo dire che Matteo si rivolge alla sua chiesa,  ma Gesù ora si rivolge a noi mettendoci in guardia circa il rischio di fariseismo. L’intenzione di questo testo è duplice: bollare la sinagoga del tempo con il marchio dell’ipocrisia; fare opera costruttiva della comunità, chiamata a una fedeltà di vita senza confronti con il passato.

Nella prima invettiva viene nominata la «cattedra di Mosè» dove si sono seduti scribi e farisei. Nelle sinagoghe vi erano dei particolari seggi d’onore in pietra riservati ai dottori della Legge. Il riferimento alla «cattedra di Mosè» è comunque una metafora, non necessariamente indica quel preciso seggio, ma allude all’autorità didattica e direttiva degli scribi e dei farisei nella comunità giudaica.

Gesù dice: «Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono». In questo modo sembrerebbe  riconoscere il valore del loro insegnamento. Questo è un po’ strano perché molte altre volte Gesù contesta quello che dicono scribi e farisei. Prosegue: «ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno». Allora Gesù rimprovera gli scribi e i farisei per il loro “dire e non fare”, di insegnare (a volte) correttamente senza avere una prassi corrispondente. 

Seguono altre tre accuse di Gesù:

  1. Pretendere dagli altri quello che loro stessi non fanno: «Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito». Gesù aveva avuto pietà per le vittime dei numerosi precetti (al limite dell’impossibilità): «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28).
  2. La simulazione o l’esibizionismo religioso. Gesù non condanna espressamente tali usanze ma solo lo spirito di ostentazione con cui venivano praticate; il rischio di praticare un’osservanza anziché l’obbedienza è presente anche oggi in molte pratiche devozionali.
  3. L’abitudine di farsi chiamare rabbì  (lett.: mio grande), la popolarità cercata, gli onori ambiti. È interessante che se negli altri vangeli Gesù è da molti chiamato rabbì o rabbunì, nel vangelo di Matteo questo avviene solo da parte di un solo discepolo: il traditore.

Il brano prosegue con le parole di Gesù: «Ma voi non fatevi chiamare rabbì». Questo titolo, come quello di “padre” e “dottore” è impedito nella comunità del Messia per due motivi convergenti: l’unica autorità di insegnamento del Messia, e la nostra comune condizione di fraternità («voi siete tutti fratelli»).

Possiamo allora comprendere il detto conclusivo: «Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato». Gesù desidera aiutarci a uscire da ogni nostra ipocrisia. D’altra parte, se ci pensiamo, è normale che la persona più grande si prenda cura del più piccolo, come un adulto di un bambino.

Invitati al banchetto di nozze (Mt 22, 1-14)

  • a calendario: OFF
  • In Bacheca: ON
  • Giorno: XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (anno A)

(Mt 22,1-14)

Per avere le giuste chiavi di lettura di questo brano di Vangelo abbiamo bisogno di ricordare le parabole che lo precedono nello stesso testo di Matteo e che abbiamo ascoltato le due domeniche scorse: la prima è la parabola dei due figli chiamati dal padre a lavorare nella vigna, dei quali il primo dice subito sì ma poi non ci va e il secondo dice no ma poi ci ripensa e ci va; la seconda è la parabola dei vignaioli omicidi che si rifiutano di dare il raccolto al padrone e anzi maltrattano e uccidono prima i servi e poi il figlio dello stesso padrone. Quindi un tema che ricorre da qualche domenica è quello del rifiuto, tuttavia il testo che stiamo prendendo in considerazione incomincia precisando che Gesù «riprese a parlare» (sempre rivolgendosi ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo, cfr. Mt 21,23). Dicendo riprese si deve intendere che introduce qui un nuovo argomento: «il regno dei cieli». Gesù, con questa parabola, sta illustrando un aspetto dell’intervento ultimo di Dio sull’umanità paragonandolo ad un re che organizza un banchetto di nozze per il figlio.

La parabola.

Un re «mandò i suoi servi a chiamare gli invitati». Gli invitati sono i chiamati, potremmo leggere che questo re manda i suoi servi a chiamare i chiamati (καλέσαι τοὺς κεκλημένους). La chiamata - la vocazione - è un tema tipico di Matteo ed è ripetuta più volte, come anche tre domeniche fa con la ripetuta chiamata a lavorare nella vigna, fino agli operai dell’ultima ora. Sappiamo anche che questa chiamata è rivolta a tutti: «cattivi e buoni». Questa chiamata “universale” ricorda un po’ l’immagine della pesca miracolosa, fatta da pescatori che diventeranno poi “pescatori di uomini”. Ma a questa premurosa chiamata la risposta è un no deciso.

Alla prima, infruttuosa chiamata, ne segue un’altra che ha esiti anche peggiori: infatti se alcuni chiamati rispondono negativamente facendo capire che hanno impegni e affari più importanti che partecipare a quel banchetto, altri arrivano agli insulti e perfino all’uccisione dei servi. Possiamo facilmente vedere in questi due gruppi di servi tra i primi la rappresentazione dei profeti, trattati con sufficienza dai loro contemporanei; nel gruppo dei secondi servi inviati, riconosciamo gli apostoli, i discepoli del Signore e, forse, anche noi. L’assurdo di questi rifiuti è che il re non chiedeva niente altro che la partecipazione ad un banchetto, gratis!

Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città». Il re non si limita all’uccisione dei colpevoli ma distrugge e incendia la loro città. Questo comportamento del re un po' contrastante con la magnanimità di prima, è da leggersi come un tentativo che Matteo fa di compiere una lettura teologica della storia. Questo versetto (7) è una interpretazione che Matteo fa circa i fatti avvenuti nel 70 d.C. quando Gerusalemme e il Tempio furono rasi al suolo e dati alle fiamme dall’esercito romano.

«Poi disse ai suoi servi - La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze». Al re stanno a cuore le nozze e il suo banchetto e quei posti vuole riempirli. La forma verbale che è usata qui per dire di chiamare quelli che si trovano ai crocicchi delle strade è un imperativo che ordina un’azione.

È utile notare come la medesima parabola inserita nel vangelo di Luca (Lc 14,16-24) descriva i destinatari di questa nuova chiamata come «i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi», mentre per Matteo sono raccolti «tutti quelli che troverete», e i servi poi radunarono tutti «cattivi e buoni». Il verbo radunare è synàgò da cui synagógè, sinagoga, assemblea liturgica. Sono le nostre messe, le nostre liturgie ma è anche la Chiesa stessa nella quale sono raccolti tutti e tutti dovrebbero trovare accoglienza, luogo di ristoro, di festa, di amicizia e gioia… dovrebbero.

Dal versetto 11 troviamo, molto probabilmente un’altra parabola attaccata alla precedente (infatti in Luca non si trova). Sembra che il re, qui cambi completamente modo d’essere, pare in contraddizione con la generosità mostrata sopra. Il re entra nella sala da pranzo per vedere che tutto sia a posto ma scorge un commensale che non indossava l’abito nuziale. Non si può evitare un certo sconcerto di fronte a questa “mancanza” di quest’uomo, nel senso che ci si domanda quale abito di festa poteva indossare un tizio raccolto lungo la strada! Evidentemente non si tratta qui di un abito come lo intendiamo noi, lo si può capire anche dal fatto che la mancanza di esso non era stata notata dei servitori ma solo da uno sguardo più “penetrante” del re. Questa svista dei servitori e questo notare da parte del Re fa pensare ad un commensale che pensava di essere idoneo solo per una forma esteriore. L’evangelista Matteo doveva avere presente delle situazioni concrete, presenti nella propria comunità, di chi si sentiva sicuro del proprio posto al banchetto per dei diritti acquisiti e per una forma rispettata. L’accesso al banchetto non è un diritto ma sempre e solo un dono, l’abito nuziale è quello dell’umiltà e della carità, un abito non ostentato ma che Dio sa riconoscere e per questo aprirà le porte del suo banchetto.

Less is more - La semplicità è importante

  • a calendario: OFF
  • In Bacheca: ON
  • Giorno: XXX Domenica del Tempo Ordinario (anno A)

(Mt 22,34-40)

La pericope evangelica della 30° domenica del tempo ordinario (anno A) presenta la terza diatriba di Gesù contenuta nel capitolo ventiduesimo del Vangelo di Matteo (cfr. Rendete a Dio quello che è di Dio). Omessa la diatriba con i sadducei, sulla questione della risurrezione dei morti, tornano i farisei, gli esponenti ufficiali del giudaismo, a proporre un’altra spinosa questione a Gesù. Un loro inviato, un dottore della Legge, pone un quesito tipico nelle discussioni tra esperti della Legge: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Ossia, esiste, tra i 613 precetti contati dai rabbini, un comandamento che sia più grande? La questione non era nuova; in una particolare corrente farisaica (che si rifaceva alla scuola del rabbino Hillel), si ammetteva la possibilità di una gerarchia dei precetti, in pesanti e leggeri, ma anche la possibilità di riassumere tutto il contenuto della Torà in un unico principio («Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti», Mt 7,12 - La regola d’oro).

Anche in questa disputa, gli avversari di Gesù usano il consueto metodo della discussione tra maestri e maestri (e maestri e discepoli) per mettere in difficoltà Gesù. Ma a differenza di domenica scorsa, dove si diceva che i farisei (con gli erodiani) cercavano di cogliere in fallo Gesù, cioè di tendergli un trabocchetto, ora il desiderio del dottore della Legge è di mettere alla prova. Il verbo utilizzato, peirázo è quello utilizzato da Matteo nell’episodio delle tentazioni di Gesù (cfr. 4,1), ha un duplice significato: “mettere alla prova, saggiare” e “far deviare dalla retta via”.

La risposta di Gesù è rapida, citando il testo di Dt 6,5, ribadisce il precetto dell’amore verso Dio imposto ad Israele nell’Antico Testamento. Si tratta di un amore che non si esaurisce nell’adempimento delle esigenze esterne del culto (non basta andare a messa e “dire” le preghiere, osservare i precetti), ma coinvolge la parte più interna dell’uomo: cuore… anima… mente. Questo precetto fondamentale della religione ebraica veniva ricordato all’israelita nella preghiera che essi recitavano almeno 2 volte al giorno e chiamano lo Shema’. Gesù esplicita: «Questo è il grande e primo comandamento», vale a dire che senza di esso gli altri non avrebbero senso né efficacia.

Al primo comandamento Gesù unisce un «secondo» citando ancora l’Antico Testamento nel libro del Levitico: «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19,18). Affermando che il comandamento dell’amore per il prossimo è «simile» al quello dell’amore per Dio, Gesù pone una congruenza, una specie di specularità tra i due precetti. L’aggettivo «simile» («homoía») indica sostanza identica. L’originalità nella risposta di Gesù consiste proprio nella combinazione di questi due precetti già conosciuti ma mai messi in correlazione. L’amore di Dio e l’amore del prossimo non sono la stessa cosa ma hanno lo stesso peso, formano un’unità integrale.

La risposta di Gesù, al quesito del dottore della Legge, non ha lo scopo di semplificare la casistica delle norme giudaiche, ma quello di radicalizzare la Legge escludendo l’obbedienza alla legge per la legge, per un porsi davanti a Dio stesso. Il verbo “dipendere”(«kremánnymi») - «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti» - evoca l’immagine di un gancio o di un cardine. Il termine greco si traduce letteralmente con “pendere”,è usato anche per indicare chi è appeso ad una croce, restituisce l’idea di una massa voluminosa sospesa in aria mediante due corde o tiranti e su cui ruota tutta la rivelazione biblica.

L’Amore non fa venir meno l’obbedienza ma la rende filiale, così come non rende meno impegnativa la relazione con Dio e con il prossimo ma la fa diventare uno spazio di libertà. Perché l’amore non lo si esegue, lo si vive. L'Amore è semplice (Vs. complicato).

Purificare il Cuore, Ricostruire il Tempio

  • a calendario: OFF
  • Citazione: «Amiamo dunque Dio e adoriamolo con cuore puro e mente pura, poiché egli stesso, ricercando questo sopra tutte le altre cose, disse: I veri adoratori adoreranno il Padre nello spirito e nella verità. Tutti infatti quelli che lo adorano, bisogna che lo adorino nello spirito della verità» (2Lf III, 19: FF 187)
  • PdD: Gv 2,13-25
  • In Bacheca: ON
  • Giorno: III Domenica di Quaresima (anno B)
  • lectio: https://www.montemesma.it/images/Storage/Lectio/Lectio Gv 2,13-25 (III Domenica di Quaresima - B).pdf

La liturgia della Parola della III Domenica di Quaresima dell'anno B ci offre la lettura del vangelo di Giovanni dal capitolo 2, i versetti da 13 a 25, si tratta dell'episodio di Gesù che scaccia i venditori dal tempio. Potremmo dire che la collocazione di questa azione all'inizio del vangelo è storicamente illogica, anche se il gesto è certamente storico, infatti è del tutto improbabile che un perfetto sconosciuto si mettesse a ribaltare i tavoli senza finire nei guai! I vangeli sinottici pongono questa vicenda all'inizio dell'ultima settimana della vita terrena di Gesù (Mc 11,15-17; Mt 21,12-13; Lc 19,45-46). C'è da domandarsi, come mai Giovanni anticipa qui il gesto anarchico del Signore? 

Questo evento collocato, nel vangelo di Giovanni all'inizio del ministero di Gesù, riveste un significato simbolico e teologico profondo, che va oltre la semplice azione di cacciare i mercanti dal tempio. Il quarto evangelista, con il suo stile teologico e simbolico, ci offre una prospettiva profonda sull'incontro di Gesù con il tempio e con coloro che vi commerciavano. Attraverso questo episodio, Giovanni ci invita a riflettere sulla vera natura del culto e sulla relazione autentica con Dio.

Il gesto di purificazione del Tempio

Dopo il miracolo delle nozze di Cana (Gv 2, 1-12), Gesù si reca a Gerusalemme per la Pasqua. Questo dettaglio temporale è significativo perché la Pasqua rappresenta uno dei momenti più importanti nel calendario ebraico, durante il quale si celebrava la liberazione dalla schiavitù in Egitto. La presenza di Gesù al Tempio in questo contesto sottolinea la sua fedeltà alla tradizione ebraica e il suo rispetto per le pratiche religiose. Una volta al Tempio si confronta con la presenza di mercanti e cambiavalute. La sua reazione è decisa e radicale: confeziona una frusta di cordicelle e scaccia tutti dal Tempio, ribaltando i banchi dei cambiavalute e rimproverando coloro che trasformavano la casa di Dio in un mercato. Questo gesto profetico richiama l'immagine degli antichi profeti che denunciavano l'ipocrisia e l'idolatria del popolo, e  sottolinea l'importanza di una fede autentica e di un culto spirituale.

La reazione delle autorità religiose

La reazione dei Giudei alle parole e alle azioni di Gesù è di sorpresa e chiedono un segno che giustifichi il suo comportamento, la sua autorità per agire in tal modo. Tuttavia, la richiesta di un segno evidenzia la mancanza di comprensione spirituale da parte delle autorità religiose, che cercano una conferma esterna anziché accogliere la verità interiore proclamata da Gesù.

La profezia di Gesù sulla risurrezione

In risposta alla richiesta dei Giudei, Gesù proclama la profezia della sua risurrezione in tre giorni, riferendosi al tempio del suo corpo. Questo annuncio anticipa la Pasqua e rivela il mistero della salvezza attraverso il sacrificio di Cristo. È un invito a riflettere sulla vera natura del Tempio e sulla nuova alleanza che Gesù inaugurerà con la sua risurrezione.

La reazione della folla e la comprensione postuma

Il testo evangelico riporta che «molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome»,  ma Gesù non si fida di loro perché conosce il cuore umano. Questo ci ricorda che la fede non può basarsi solo sui miracoli, ma deve essere radicata in una relazione personale con Gesù. È una chiamata alla profondità della fede e alla conversione interiore.

Riflessioni e domande

  1. Qual è il tempio nella tua vita? Come puoi purificarlo per renderlo un luogo di autentico incontro con Dio?

  2. Quali sono le pratiche "commerciali" che possono contaminare la tua relazione con Dio? Come puoi allontanarle per avvicinarti di più a Lui?

  3. Cerchi una fede autentica o ti accontenti di esperienze superficiali? Qual è il segno più profondo della presenza di Dio per te? 

    Preghiera

Signore Gesù, tu sei il vero tempio dove possiamo incontrare Dio. Purifica il nostro cuore dalle contaminazioni del peccato e guidaci sulla via della conversione. Aiutaci a riconoscere i segni della tua presenza nelle nostre vite e a rispondere con fede e amore. Amen.

Rendete a Dio quello che è di Dio (Mt 22,15-21)

  • a calendario: OFF
  • In Bacheca: ON
  • Giorno: XXIX Domenica del Tempo Ordinario (anno A)

(Mt 22,15-21)

Il brano di vangelo che la liturgia ci offre nella 29° domenica del tempo ordinario (anno A) è la seconda delle cinque controversie tra  Gesù e i suoi avversari, appartenenti a vari gruppi religioso-politici, contenute nel vangelo secondo Matteo. La prima diatriba è quella che si trova al capitolo 21, versetti 23-27, è con i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo, riguarda l’autorità di Gesù. Dopo una serie di parabole che abbiamo ascoltato le domeniche precedenti, nel capitolo 22 troviamo altre quattro diatribe: questa (vv. 15-22) con i farisei e gli erodiani, riguardante il tributo a Cesare; con i sadducei (vv. 23-33) circa la risurrezione; con i dottori della Legge (vv. 34-40), sul grande comandamento; infine di nuovo con i farisei (vv. 41-46), sul figlio di Davide. Tutte queste discussioni scaturiscono da quesiti riguardanti l’interpretazione delle Scritture.

Nella tradizione giudaica, l'apprendimento della Torah, la Legge, avviene attraverso il confronto e la discussione tra studenti e maestri. È un processo collettivo, non si legge la Torah in silenzio, ma ci si confronta attivamente. Gli studenti fanno domande e sollevano questioni. Dunque, quando i farisei si rivolgono a Gesù, lo fanno come farebbero con qualsiasi altro rabbino, chiedendo il suo parere su una questione legata alla Legge di Dio. Tuttavia, in questa situazione, i farisei hanno un obiettivo nascosto: cercano di incastrare Gesù con una domanda trabocchetto, fingendo di essere lusingati dalla sua conoscenza. Gesù percepisce immediatamente la loro malizia e capisce che non sono interessati alla verità, ma vogliono tendergli una trappola. Questo atteggiamento è purtroppo comune nelle discussioni in cui si cerca di prevalere sull'altro piuttosto che cercare la verità insieme.

L’accostamento di farisei e erodiani è una strana associazione per il fatto che questi due gruppi non si trovano in accordo sulla questione che pongono a Gesù. I farisei, erano caratterizzati dall’osservanza intransigente della Legge e sentivano come un autentico problema di coscienza dover maneggiare le monete romane che recavano l’effigie dell’imperatore con l’iscrizione “Tiberio Cesare, Augusto figlio del divino Augusto”;questi elementi che attribuivano all’impertatore una connotazione divina erano, in modo evidente, contro ogni divieto di idolatria. Da parte dei farisei, quindi, l’obbligo del tributo romano era considerato un’umiliazione religiosa. Gli erodiani, come dice il nome stesso, erano legati alla famiglia di Erode Antipa, regnante con il consenso dei Romani, vedevano quindi favorevole il buon rapporto con gli occupanti e quindi anche normale pagare le tasse senza nessuno scrupolo religioso.

Un altro gruppo, non citato nel vangelo ma importante per la comprensione dell’episodio, era quello degli zeloti, gli uomini del pugnale, che avevano un approccio di difesa fanatica verso i romani e che per difendere le tradizioni giudaiche non esitavano intraprendere sanguinose rivolte armate contro l’invasore. Sembra quindi che Gesù se non si fosse messo dalla parte o dei farisei o degli erodiani si sarebbe implicitamente dichiarato tra gli zeloti e così facilmente accusabile di sobillazione antiromana. Comunque avesse risposto Gesù si sarebbe esposto a strumentalizzazione.

Gesù comprende il tranello ed è consapevole delle conseguenze di una risposta. Ma accetta la sfida, volendo dare con l’occasione un insegnamento che resti per sempre. Prima smaschera l’ipocrisia dei suoi interlocutori («Ipocriti, perché volete mettermi alla prova?») che si mascherano dietro alla copertura di scrupoli religiosi, poi chiede di vedere la moneta del tributo, questa era  la moneta corrente, il denaro romano della zecca di Roma. Il diritto di coniare monete era un atto di sovranità, ed era gelosamente custodito dalle autorità romane. A questo punto Gesù dà la celebre risposta che letteralmente si tradurrebbe così: «Restituite dunque quanto è di Cesare a Cesare, e quanto è di Dio a Dio». Termini principali sono: «restituire» (apodìdómì) e «quanto è» (). Quindi Gesù indica una specie di restituzione. L’imperatore conia le monete con la propria testa stampata sopra, quindi è roba sua: voi la usate e con le tasse gliela restituite. Gesù rigetta la posizione degli zeloti senza accettare quella degli erodiani. La moneta fornisce la risposta alla domanda: appartiene a Cesare e Cesare ha il diritto di richiederla. Il pagamento delle tasse a Cesare non rappresenta un atto religioso, né implica rinunciare al culto a Dio o alle speranze messe in atto dal Messia. È semplicemente una questione amministrativa, che non dovrebbe essere fraintesa come qualcosa di diverso se non fosse per l'interpretazione distorta di alcuni agitatori politici.

Ora, però,  Gesù porta il discorso su un livello molto più alto, quello del potere di Dio. Se Cesare ha creato la sua moneta, il Signore ha creato l’uomo, la sua «icona», a immagine e somiglianza di sé. Il Signore è sovrano, «sopra tutti gli dei» falsi, come lo sono i Cesari di tutte le epoche. Dio, con la sua regalità, non entra in concorrenza con il “piccolo potere” di Cesare.

Molte volte questa sentenza di Gesù viene utilizzata per giustificare la distinzione tra "stato" e "chiesa" o tra ambito "politico" e quello "religioso". Questa è però una lettura riduttiva e anacronistica, innanzitutto perché Dio non è la chiesa e Cesare, nella concezione dell’impero romano, non corrisponde allo stato moderno. Quello che compie Gesù è circoscrivere l’ambito del potere politico togliendogli la maschera della sacralità idolatrica, restituendogli la sua “laicità” profana. Chi sta soggetto a Cesare deve sapere che Cesare non è autonomo, né autocrate, non pone leggi da sé, né si dà il potere da sé; se lo fa è un tiranno. Deve tener conto di Dio e degli uomini; se non lo fa, ne deve rendere conto a Dio, Gesù lo rinfaccerà a Pilato in Gv 19,11 (cfr. Lettera  di San Francesco ai reggitori di popoli).

I discepoli di Gesù e i credenti di oggi che si trovano a vivere in un contesto di stato “laico” non solo possono, ma debbono pagare il loro tributo a Cesare senza svendere la propria coscienza. Il rimando alle esigenze di Dio, incomparabili con quelle pur giuste di “Cesare”, non può essere un alibi per il disimpegno civile. Anzi l’appello alla coscienza religiosa è uno sprone a un più radicale adempimento dei propri doveri civici.

Salvati per grazia

Il cammino quaresimale, che precede la celebrazione della Pasqua, non è soltanto un periodo di astinenza e penitenza, ma anche un tempo di profonda riflessione e conversione spirituale. È un momento in cui siamo chiamati a dirigere il nostro sguardo verso il cuore della fede cristiana e a rinnovare il nostro impegno a seguire Gesù Cristo.

Questo cammino inizia con un chiaro annuncio fatto da Gesù stesso: "Il tempo è compiuto, convertitevi e credete nel vangelo". Queste parole, pronunciate all'inizio del suo ministero pubblico, continuano a risuonare attraverso i secoli, invitando ciascuno di noi a voltarci verso di lui, a lasciarci guardare e a guardarlo con fiducia e devozione.

Alla Scoperta dell'Alleanza con Dio

Durante il cammino quaresimale, la liturgia ci guida attraverso la memoria dell'alleanza tra Dio e gli uomini, un patto di amore e misericordia che si sviluppa lungo tutta la storia della salvezza. Questa alleanza è stata sigillata con Noè attraverso la promessa divina di non distruggere più la terra con un diluvio. Con Abramo, l'alleanza prende forma nella promessa di una discendenza numerosa e benedetta. Mosè, poi, riceve le "dieci parole" sul monte Sinai, segnando un'altra tappa cruciale nell'alleanza divina.

Questa storia di alleanza è un segno tangibile dell'amore infinito di Dio per l'umanità, un amore che persiste nonostante le nostre infedeltà e le nostre cadute. È un amore che ci invita costantemente a tornare a lui, a rinnovare la nostra alleanza e a camminare con fiducia lungo la via della redenzione.

Gesù: Nuovo Tempio e Sapienza della Croce

Nel corso della quaresima, seguiamo le orme di Gesù mentre ci conduce alla scoperta della sua vera identità e missione. Lo vediamo entrare nel tempio di Gerusalemme e ribaltare i tavoli dei mercanti, rivelando la sua autorità divina e il suo desiderio di purificare il culto religioso da ogni forma di ipocrisia e idolatria.

Ma è soprattutto attraverso la sua morte e risurrezione che Gesù si rivela come il nuovo tempio e la sorgente della vera saggezza. La croce diventa il luogo in cui la follia umana si scontra con la sapienza divina, e dove il potere della morte è sconfitto dall'amore redentore di Dio.

La Croce come Segno di Salvezza e Vita

Nel Vangelo secondo Giovanni, la croce non è soltanto uno strumento di tortura e morte, ma anche il segno luminoso della salvezza e della vita eterna. Gesù stesso lo afferma: "Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna".

Questo richiamo al serpente innalzato nel deserto, presente nel discorso di Gesù con Nicodemo, rivela il mistero della croce come fonte di salvezza. Così come coloro che guardavano il serpente di bronzo venivano guariti dal morso dei serpenti velenosi, così anche coloro che fissano lo sguardo su Gesù crocifisso con fede ricevono la vita eterna

Luce e Tenebre: Scegliere la Via della Luce

Il commento di Gesù a Nicodemo si conclude con un'importante dichiarazione: "Chi opera la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio". Queste parole ci ricordano che la quaresima non è soltanto un tempo di penitenza e sacrificio, ma anche un'opportunità per scegliere la via della verità e della luce.

Nel buio delle nostre debolezze e dei nostri peccati, siamo chiamati a lasciarci illuminare dalla luce di Cristo, a mettere in pratica la verità del Vangelo e a testimoniare con le nostre vite il potere trasformatore della grazia divina.

Riflessioni e domande

Il cammino quaresimale ci offre l'opportunità di immergerci più profondamente nel mistero della nostra fede, di contemplare la bellezza della croce e di rinnovare il nostro impegno a seguire Gesù con cuore sincero e rinnovato. È un tempo di conversione e trasformazione, un invito a lasciare i nostri peccati e ad abbracciare l'amore misericordioso di Dio.

Che questo periodo di quaresima sia per noi un tempo di crescita spirituale e di rinnovamento interiore, un'occasione per riscoprire la gioia e la speranza che vengono dal seguire Cristo sulla via della croce e della risurrezione. Che possiamo abbracciare il suo amore con tutto il nostro cuore e vivere in pienezza la vita che egli ci offre.

  1. Riconosci delle "tenebre" nella tua vita che ti impediscono di avvicinarmi alla luce di Cristo? Come superarle?

  2. Riesci a fidarti di Dio completamente, anche quando non comprendi appieno il suo piano per te?

  3. Riesci superare il timore di essere giudicato dagli altri e permettere alla luce di Dio di rivelare la verità dentro di te?

Preghiera

Padre celeste, donaci la grazia di contemplare la croce di tuo Figlio con occhi rinnovati. Concedici la forza di seguire il suo esempio di amore e sacrificio, affinché possiamo sperimentare la gioia della risurrezione nella nostra vita. Amen.

Vogliamo vedere

Incontri oltre le frontiere

Nel passaggio del Vangelo di Giovanni 12,20-33, troviamo il racconto di un evento significativo: alcuni Greci, desiderosi di incontrare Gesù, si rivolgono a Filippo e Andrea. Questo episodio segna l'inizio di un dialogo che va oltre i confini culturali e religiosi. I Greci, rappresentanti di un mondo pagano, vogliono "vedere Gesù", indicando un desiderio di conoscenza e incontro. In questo contesto, emerge la necessità di un approccio rispettoso e aperto al dialogo interculturale e interreligioso, fondato sulla ricerca sincera della verità e della fede. Non è solo un atto di curiosità, ma un desiderio profondo di conoscere la persona di Gesù e il suo messaggio.

La trafila che questi Greci devono compiere per incontrare Gesù, passando da Filippo ad Andrea prima di arrivare a Lui, sottolinea le difficoltà della comunità primitiva nel comprendere e accogliere l'universalismo proposto da Gesù. Questo episodio mette in luce le sfide culturali e religiose che i primi cristiani dovevano affrontare nell'apertura alla diversità e all'inclusività.

Il linguaggio universale dell'amore

23Gesù rispose loro: «È venuta l'ora che il Figlio dell'uomo sia glorificato».

La risposta di Gesù alla richiesta dei Greci, apparentemente fuori tema, rivela invece un profondo significato. L'ora della sua glorificazione, indicata dalla prossima morte in croce, rivela l'amore universale di Dio per tutta l'umanità. Gesù parla del sacrificio come un atto di amore che porta frutto, mettendo in discussione i valori mondani di successo e prestigio. Attraverso la morte di Gesù, Dio manifesta il suo amore universale per tutta l'umanità, offrendo la possibilità della salvezza a chiunque creda. La croce diventa così il simbolo della vittoria sulla morte e dell'amore redentore di Dio per il mondo.

La simbologia del chicco di grano:

 25Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. 26Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà.

Gesù invita coloro che vogliono servirlo a seguirlo e ad essere pronti ad affrontare le sfide e le persecuzioni che comporta la sequela.  Attraverso l'immagine del chicco di grano che muore per produrre frutto, Gesù illustra il significato della sua morte e risurrezione esprimendo il concetto di fertilità attraverso il sacrificio. La sua morte sulla croce non è vista come una sconfitta, ma come un'esplosione di vita e amore. Questo passaggio sottolinea l'importanza del dono di sé e del servizio agli altri, come vie per comprendere e vivere la vera gloria di Dio. Il vero valore risiede nell'umiltà e nell'amore disinteressato.

Accettare la propria fragilità. Avere fiducia in Dio

27Adesso l'anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest'ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest'ora! 28Padre, glorifica il tuo nome».

Gesù esprime la sua umanità nel momento di angoscia di fronte alla prospettiva della morte imminente, la sua reazione è di turbamento e paura. Tuttavia, offre un potente esempio di accettazione della propria fragilità umana, accettando il suo destino con fiducia nel piano divino, chiedendo al Padre di glorificare il suo nome attraverso il suo sacrificio. Ci indica la via della piena consegna e obbedienza, anche di fronte alla sofferenza.

La voce dal cielo:

La voce dal cielo conferma il piano divino e annuncia la glorificazione di Gesù attraverso la sua morte e risurrezione.

29La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». 30Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. 31Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori.

Questo evento segna un punto di svolta nel giudizio del mondo e nell'attrazione di tutte le persone verso Gesù; è un invito, rivolto a tutti, a riflettere sulla propria vita e sulla propria fede. La richiesta di vedere Gesù riflette il desiderio universale di incontro con il Divino, mentre la risposta di Gesù sottolinea l'importanza della trasformazione interiore attraverso il dono di sé e la fede attiva nell'amore di Dio.

Conclusioni

Il passaggio del Vangelo di Giovanni 12,20-33 ci invita a riflettere sulla ricerca dell'incontro con Gesù, sull'importanza del sacrificio e del servizio, e sulla fiducia nel piano divino nonostante le difficoltà. Ci sprona a vivere una vita improntata sull'amore e sull'umiltà, consapevoli della presenza divina che ci guida e ci sostiene nelle nostre sfide.

Riflessioni e domande

  1. Come puoi approfondire la tua relazione con Dio e Gesù Cristo attraverso lo studio e la meditazione della Parola di Dio? Quali passi pratici puoi intraprendere per rendere la Parola di Dio una parte più significativa della tua vita quotidiana?

  2. Il concetto di sacrificio può essere difficile da comprendere e accettare nella società contemporanea orientata al successo e al benessere individuale. Quali situazioni o relazioni nella mia vita richiedono un sacrificio da parte mia, e come posso viverle con umiltà e generosità, seguendo l'esempio di Cristo?

  3. Quali opportunità ho per trasformare le mie fragilità in occasioni di crescita spirituale e per manifestare la mia fede e il mio amore agli altri?

Preghiera

Dio misericordioso, concedici la grazia di incontrare Cristo nelle nostre vite quotidiane e di imparare dagli insegnamenti di amore e servizio che ci ha lasciato. Aiutaci a abbracciare il sacrificio come segno del tuo amore universale per tutta l'umanità e guidaci nel servire gli altri con umiltà e generosità. Amen.