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Amati "fino alla fine": Quando la Realtà Incontra la Grazia

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Quante volte ci accade? Partiamo con i migliori propositi, nutriamo aspettative luminose, sogniamo traguardi nobili. Poi, arriva il momento di agire, di “tirare le somme”, e ci ritroviamo in una situazione ben diversa, lontana da quell’ideale che avevamo accarezzato nel cuore. È un’esperienza umana comune, quasi universale: la realtà, con le sue asperità e i suoi imprevisti, raramente coincide perfettamente con i nostri desideri. Potremmo quasi dire che questa discrepanza tra l’ideale e il reale sia una costante della condizione umana.

Forse ci sorprende pensare che una simile esperienza possa aver toccato, in qualche modo, anche Gesù. Non certo perché Egli sia venuto meno ai suoi intenti divini, ma perché la situazione in cui si trovò nel momento culminante della sua missione terrena, quella che il Vangelo chiama la “sua ora” (Gv 13, 1), era tutt’altro che ideale. Non fu Lui a fallire, ma attorno a Lui si addensavano le ombre del fallimento umano. Giunse al vertice della sua vocazione, al momento per cui era venuto nel mondo, circondato da delusioni profonde: non solo il tradimento che già maturava nel cuore di uno dei suoi, ma anche l’incomprensione diffusa, la paura e persino la presunzione degli altri amici più stretti, come Pietro che di lì a poco avrebbe proclamato una fedeltà presto smentita dai fatti. Era una realtà intrisa di fragilità, incomprensione e imminente abbandono.

Eppure – ed è qui che il cuore si commuove e la mente si stupisce – proprio in quel contesto, “sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre” (Gv 13, 1), “nella notte in cui veniva tradito” (1 Cor 11, 23), Gesù compì un gesto che sigilla la sua intera esistenza: “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13, 1). L'amore perfetto di Dio non attende condizioni ideali per manifestarsi; anzi, sceglie proprio il terreno accidentato della nostra imperfezione, del nostro tradimento e della nostra incomprensione per rivelarsi in tutta la sua potenza gratuita e incondizionata. Se l'amore divino avesse richiesto destinatari perfetti o circostanze favorevoli, non avrebbe potuto risplendere con tanta intensità proprio in quel momento cruciale. La scelta di Gesù di amare “fino alla fine” proprio lì, in mezzo a quella realtà così deludente, ci svela una verità fondamentale: l'amore di Dio non è una ricompensa per la nostra bravura, ma un dono che si riversa proprio là dove c’è più bisogno, nella nostra debolezza e nel nostro peccato. Questo capovolge la nostra logica umana, che spesso ci porta a ritirare l'amore o l'impegno di fronte alla delusione. L'esempio di Gesù ci chiama a un amore diverso, un amore che persevera nonostante tutto.

Il Gesto Inaudito: Dio si China sui Nostri Passi Incerti

In quella cornice carica di tensione e di amore imminente, Gesù compie un gesto che rimarrà impresso per sempre nella memoria dei suoi discepoli e della Chiesa: la lavanda dei piedi (Gv 13, 1-15). Il racconto evangelico sottolinea la piena consapevolezza e la solennità del momento: Gesù si alza da tavola, depone le vesti – quasi un simbolo del suo spogliarsi della gloria divina – prende un asciugamano e se lo cinge ai fianchi, come un servo. Poi versa dell’acqua in un catino e, uno ad uno, inizia a lavare i piedi dei suoi discepoli e ad asciugarli.

Era un compito umiliante, solitamente riservato agli schiavi o ai servi di rango più basso nell'ospitalità del tempo. Che fosse il Maestro, il Signore – “Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono” (Gv 13, 13) – a compierlo, era un rovesciamento radicale delle gerarchie e delle aspettative. Non si trattava di semplice cortesia, ma di una potente lezione visiva sull'essenza stessa di Dio: un Dio che si abbassa, che si fa servo per amore dell'uomo. Quel gesto prefigurava l'umiliazione suprema della Croce, il servizio ultimo offerto per la nostra salvezza.

Chinandosi, Gesù vede la polvere e il fango sui piedi dei suoi amici. Vede, simbolicamente, le strade sbagliate che hanno percorso, le deviazioni, le ferite, la “sporcizia” accumulata nel cammino della vita. Non si ritrae disgustato, ma con tenerezza lava via quella sporcizia. È l'immagine di Dio che non teme di incontrarci nella nostra realtà più scomoda e imperfetta, che vede i nostri errori e i nostri peccati non per condannarci, ma per offrirci la purificazione del suo amore misericordioso.

La reazione di Pietro è emblematica della nostra fatica umana (Gv 13, 6-9). “Signore, tu lavi i piedi a me?”. Non è solo sorpresa, è quasi scandalo. Dietro la sua protesta si cela la nostra difficoltà ad accettare un amore così gratuito e umiliante, un amore che non ci siamo meritati e che ci raggiunge proprio nella nostra indegnità. Fatichiamo a mostrarci vulnerabili, a lasciarci servire e amare da Dio senza pretendere di averne prima guadagnato il diritto. La risposta di Gesù è netta e carica di significato: “Se non ti laverò, non avrai parte con me” (Gv 13, 8). Non è una minaccia, ma la rivelazione di una condizione essenziale. Accogliere questo servizio umile e purificatore è indispensabile per entrare in comunione (“avere parte”) con Lui. Significa deporre l'orgoglio, abbandonare le nostre misure umane di dignità e accettare la logica sconcertante della grazia divina. Rifiutare questo gesto significa rifiutare il modo stesso in cui Dio ha scelto di salvarci: attraverso l'amore che si abbassa e si dona. Lasciarsi lavare i piedi da Gesù è il primo passo per entrare nella comunione profonda con Lui, riconoscendo il nostro bisogno del suo amore che purifica e rinnova.

Incontrare Gesù, Colui che Guarisce: Il Dono dell'Eucaristia

Se la lavanda dei piedi ci mostra l'umiltà di Dio che si china sulla nostra povertà, l'istituzione dell'Eucaristia ci rivela la pienezza del suo dono d'amore. L'apostolo Paolo, nella sua Prima Lettera ai Corinzi, ci trasmette una delle testimonianze più antiche di questo evento fondante, un racconto che egli stesso dichiara di aver “ricevuto dal Signore” (1 Cor 11, 23). La sua narrazione, forse addirittura precedente alla stesura dei Vangeli sinottici, ci riporta a quella notte carica di significato.

Paolo scrive: “il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me»” (1 Cor 11, 23-25). È interessante notare la scelta precisa delle parole: Paolo non dice semplicemente "il Signore", ma "il Signore Gesù".

Perché questa specificazione? Mentre il titolo "Signore" (Kyrios) sottolinea la divinità di Cristo e la sua vittoria sulla morte nella Risurrezione, il nome proprio "Gesù" ci riporta all'uomo di Nazareth, al Figlio di Dio incarnato. Ci ricorda Colui che ha camminato sulle strade polverose della Palestina, che è entrato nelle case della gente comune, che ha mangiato con i pubblicani e i peccatori, che ha toccato i lebbrosi, guarito i malati, consolato gli afflitti. Il nome "Gesù" ancora il mistero sublime dell'Eucaristia nella concretezza della sua vita terrena, nel suo ministero di compassione e guarigione. Paolo, scrivendo a una comunità forse tentata da divisioni o da una spiritualità disincarnata, ancora saldamente il sacramento all'evento storico della salvezza operata da quel Gesù, attraverso la sua passione, morte e risurrezione.

Allora, ricevere l'Eucaristia non è solo partecipare a un rito sacro o ricevere una grazia astratta. È incontrare personalmente Gesù, il Signore risorto ma anche l'uomo che ha conosciuto la nostra umanità, che si è chinato sulle nostre ferite e continua a farlo. È ricevere il tocco del Medico divino, Colui che non è venuto per i sani ma per i malati, non per i giusti ma per i peccatori. L'Eucaristia diventa così la continuazione del suo ministero di guarigione, un incontro vivo e trasformante con Colui che offre se stesso come cibo e bevanda per la nostra salvezza e la nostra vita. È un incontro profondamente personale e relazionale con il Salvatore che conosce il nostro nome e le nostre necessità.

Dai Piedi Lavati al Pane Spezzato: Riconoscere il Bisogno per Accogliere il Dono

Esiste un filo rosso che lega indissolubilmente il gesto della lavanda dei piedi all'istituzione dell'Eucaristia. L'umiltà necessaria per permettere a Gesù di lavare i nostri "piedi sporchi" – simbolo dei nostri peccati, delle nostre fragilità, delle strade sbagliate che abbiamo percorso – è la stessa disposizione interiore richiesta per accostarci degnamente alla Mensa eucaristica.

Spesso, ci sentiamo inadeguati, "indegni" di ricevere il Corpo e il Sangue di Cristo a causa delle nostre mancanze. È un sentimento comprensibile, che nasce dalla consapevolezza della santità di Dio e della nostra povertà. Tuttavia, se ci fermiamo a questa sensazione di indegnità, rischiamo di fraintendere la natura stessa del dono eucaristico. Gesù non ha istituito questo sacramento come premio per i perfetti, ma come farmaco per i malati, come sostegno per i deboli, come cibo per i pellegrini affamati.

La condizione fondamentale per ricevere l'Eucaristia non è l'aver raggiunto uno stato di purezza impeccabile – obiettivo irraggiungibile con le sole nostre forze – ma il riconoscere umilmente il nostro bisogno profondo del suo amore, del suo perdono, della sua guarigione. Pensare di doverci rendere perfettamente "puliti" prima di poterci accostare a Lui è come pensare che un malato debba guarire da solo prima di andare dal medico. È proprio perché siamo peccatori, perché abbiamo i "piedi sporchi", che abbiamo bisogno di Lui.

Gesù offre il suo corpo "per voi", per noi (1 Cor 11, 24). Egli dà la sua vita per noi, non per i nostri meriti, ma per la nostra salvezza. Il suo sacrificio è offerto proprio a chi non lo merita, a chi, come i discepoli in quella notte, è fragile, impaurito, persino capace di tradire. Rifiutare l'Eucaristia per un malinteso senso di indegnità significa, in un certo senso, rendere "vano" questo dono supremo d'amore, perché si rifiuta la medicina offerta proprio per la nostra malattia. Sarebbe come ripetere il gesto iniziale di Pietro che rifiutava la lavanda dei piedi. La vera "indegnità", di cui parla anche Paolo (1 Cor 11, 27), non sta tanto nell'essere peccatori, quanto nell'accostarsi con superficialità, senza riconoscere la grandezza del dono e il nostro bisogno radicale di esso, o nel partecipare al banchetto dell'unità covando nel cuore divisioni e rancori (1 Cor 11, 17-22, 27-34), che contraddicono l'amore che l'Eucaristia significa e realizza.

L'Eucaristia è il compimento dell'amore manifestato nella lavanda dei piedi: è il dono totale di sé – corpo dato e sangue versato (1 Cor 11, 24-25) – offerto per la nostra vita e la nostra guarigione. Riconoscere il nostro bisogno (come nel lasciarsi lavare i piedi) ci apre ad accogliere la pienezza del dono (l'Eucaristia). La vera disposizione non è sentirsi degni, ma sentirsi bisognosi e amati.

Amare fino alla Fine – La Forza di Gettare Ancora le Reti

Come rispondere, allora, nella nostra vita quotidiana, quando la realtà si discosta dai nostri ideali? Quando le delusioni vengono dagli altri, o, cosa forse ancora più dolorosa, quando siamo noi stessi la causa dello scarto tra ciò che vorremmo essere e ciò che siamo, tra il bene che desideriamo e il male che finiamo per compiere?

La tentazione è forte: lasciar perdere tutto, arrendersi allo scoraggiamento, credere che sia impossibile recuperare. A volte sono voci interiori, altre volte voci esterne che ci sussurrano: "È inutile, non ce la farai mai", "Hai sbagliato troppo, ormai è tardi".

Ma il Vangelo ci offre un messaggio radicalmente diverso, incarnato nell'esempio di Gesù: "ama fino alla fine". Anche quando siamo noi ad aver contribuito al disordine, alla ferita, al fallimento, la chiamata rimane quella a perseverare nell'amore: amore verso Dio, amore verso gli altri, e persino un amore paziente e misericordioso verso noi stessi, che ci permette di ricominciare.

Da dove attingere la forza per un simile amore, che sembra andare contro ogni logica umana? La troviamo nella contemplazione di Gesù, che ha amato persino chi lo stava tradendo. La troviamo nella grazia che riceviamo nei sacramenti, in particolare nell'Eucaristia, quell'incontro personale con Gesù che guarisce e ristora. La troviamo nella fede nel potere dell'amore di Dio, un amore che è più forte del nostro peccato e della nostra debolezza.

Ci viene in mente l'immagine dei discepoli che, dopo una notte di pesca infruttuosa, sulla parola di Gesù gettano nuovamente le reti e sperimentano una pesca miracolosa (Lc 5, 4-7, Gv 21, 3-6). Gettare le reti "contro ogni buonsenso umano" diventa allora metafora del nostro agire nella fede e nell'amore, anche quando la ragione suggerirebbe di desistere. È un atto di fiducia nella promessa di Dio, nella sua capacità di trarre vita anche dalle nostre apparenti sconfitte, un atto nutrito dall'amore che abbiamo ricevuto da Lui.

L'invito che ci giunge è dunque un invito alla speranza. Gesù non si arrende di fronte alle nostre fragilità e ai nostri tradimenti; ci ama "fino alla fine". Nel suo amore instancabile, umile e guaritore, noi troviamo la forza per non arrenderci a nostra volta: per non smettere di amare, di servire, di perdonare, di sperare, e di gettare ancora le reti con fiducia, sapendo che è Lui a dare fecondità ai nostri sforzi quando sono compiuti nel suo nome e con il suo amore.

Il Silenzio che Prepara l'Aurora: Abitare l'Attesa tra la Croce e la Vita Nuova

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“È compiuto!”. Con queste parole, riportate nel Vangelo di Giovanni, Gesù consegna lo spirito sulla croce, e cala un silenzio profondo. La terra sembra trattenere il respiro. La narrazione evangelica non riporta reazioni immediate dai discepoli, tutto appare sospeso. Questo silenzio non è solo assenza di suono, ma il peso della perdita e dello smarrimento. Gesù, la Parola fatta carne, ora giace muto nel sepolcro. La sua voce e i suoi gesti, che portavano consolazione, sono un ricordo lontano. Per i discepoli, il silenzio è assordante, riflette la loro confusione e paura. Pietro ha rinnegato il Maestro, gli altri si sono dispersi per timore. Il silenzio di Dio crea una tensione fortissima. La Parola per mezzo della quale tutto è stato fatto ora tace, sconfitta apparentemente dalla morte. È davvero solo la fine? O nasconde una promessa, un preludio a qualcosa di inaudito? Come risuona questo silenzio nelle nostre vite, nei momenti bui in cui la speranza vacilla?

Quando Dio Sembra Tacere: Il Peso dell'Attesa

Quante volte nella vita ci troviamo a vivere un nostro "sabato santo"? Un tempo sospeso, un’attesa infinita: la risposta a una preghiera che non arriva, una guarigione che sembra impossibile, un cambiamento che non si concretizza. L'incertezza del futuro, il peso di un lutto, il dubbio che corrode la fede. Sono momenti in cui il silenzio di Dio può diventare assordante. Quando la sofferenza ci avvolge, ci chiediamo: "Dove sei, Signore?". Questo silenzio può generare angoscia e smarrimento, persino un senso di ribellione, facendoci sentire soli come i discepoli dopo la morte di Gesù: confusi, impauriti, senza una direzione chiara. È importante riconoscere che sentirsi così fa parte dell'esperienza umana e spirituale. Non siamo i primi né gli ultimi a percorrere questa valle oscura.

Il giorno liturgico che la Chiesa dedica al silenzio e all'attesa ci ricorda proprio questo: Cristo stesso ha condiviso la nostra condizione umana fino in fondo, fino all'esperienza della morte e del silenzio del sepolcro. La sua discesa "agli inferi", nel regno della morte (Sheol o Ade), non è un mito astratto, ma l'espressione della sua radicale solidarietà con noi. Egli ha raggiunto l'umanità nella sua condizione più estrema, là dove regna l'assenza apparente di Dio.

Ma questo silenzio divino, pur mettendoci alla prova, non è segno di abbandono. Può essere uno spazio misterioso e necessario dove la nostra libertà si esprime nella fede, basata sulla fiducia in Dio. Una fede che non si appoggia su segni evidenti o risposte immediate, ma sulla fiducia nuda in Colui che ha promesso. La discesa di Cristo nel silenzio della morte, inoltre, trasforma questo silenzio in una presenza attiva, proclamando la liberazione ai giusti e rendendo l'abisso della morte un luogo di solidarietà divina.

Semi di Coraggio nel Buio

Proprio nel momento più buio, quando il Maestro è morto, i discepoli più vicini sono paralizzati dalla paura e Dio sembra aver voltato le spalle, emergono due figure inaspettate: Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo. Entrambi erano discepoli di Gesù, ma in segreto, "di nascosto per timore dei Giudei". Giuseppe era un membro autorevole del Sinedrio, Nicodemo un fariseo e un capo dei Giudei, venuto da Gesù di notte. Figure rispettate, ma timorose di compromettere la loro posizione.

Eppure, è proprio ora, nell'ora della sconfitta apparente, che trovano un coraggio sorprendente. Giuseppe si fa animo, chiede a Pilato il corpo di Gesù (Gv 19,38). Un atto non privo di rischi, dato che chiedere il corpo di un giustiziato per motivi politici poteva attirare sospetti. Nicodemo, l'uomo del dialogo notturno e delle domande caute, si unisce a lui, portando trenta chilogrammi, una quantità impressionante, di mirra e aloe, per preparare il corpo alla sepoltura. È come se, vedendo l'amore spinto fino all'estremo sulla croce, la loro paura si fosse dissolta.

Il Giardino del Nuovo Inizio

Il vangelo di Giovanni pone una particolare enfasi sul luogo della sepoltura: “Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo...” (Gv 19,41). Questa non è una semplice nota topografica, ma un dettaglio carico di significato simbolico. È facile vedere il richiamo diretto al giardino dell’Eden, luogo della creazione ma anche della caduta.

La collocazione del sepolcro all'interno del giardino, e il giardino stesso nel luogo della crocifissione, sottolinea potentemente l'intima connessione tra morte e risurrezione. La redenzione non avviene fuggendo dalla sofferenza e dalla morte, ma trasformandole dall'interno. La vita nuova non germoglia lontano dal luogo della caduta e del dolore, ma proprio lì, fecondando la terra stessa della nostra mortalità.

L'Attesa Feconda: Il Silenzio Non È Vuoto

Arriviamo così al cuore del messaggio: il tempo che intercorre tra l'evento della Croce e l'alba della Risurrezione, quel tempo simboleggiato dal grande silenzio del Sabato Santo, non è un vuoto sterile. Non è un'assenza priva di significato. È, piuttosto, uno spazio di transizione denso e carico di promessa. È un'oscurità fertile, come quella della terra che accoglie il seme, dove la vita nuova sta misteriosamente germogliando. È una pausa necessaria nel grande dramma della salvezza, la fase nascosta di una trasformazione radicale.

Dio è potentemente all'opera anche quando tutto sembra immobile, silenzioso, finito. Non esiste luogo, nemmeno l'abisso della morte o della nostra disperazione più profonda, che sia fuori dalla portata della sua azione salvifica. Cristo scende anche nei nostri "inferi" personali, nelle nostre oscurità, per portarvi la sua luce e la sua speranza.

Questa dinamica di trasformazione dal buio alla luce, dalla distruzione alla ricostruzione, è splendidamente catturata in un'antica e potente orazione della Veglia Pasquale:

«O Dio, potenza immutabile e luce che non tramonta, guarda con amore al mirabile sacramento di tutta la Chiesa e compi nella pace l’opera dell’umana salvezza secondo il tuo disegno eterno; tutto il mondo riconosca e veda che quanto è distrutto si ricostruisce, quanto è invecchiato si rinnova, e tutto ritorna alla sua integrità, per mezzo di Cristo, che è principio di ogni cosa».

Questa preghiera ci assicura che, anche nel cuore del silenzio e dell'apparente rovina, l'azione creatrice e ricreatrice di Dio è all'opera per riportare tutto alla sua pienezza originale, attraverso Cristo.

Vivere nel Silenzio con Fiducia

I tempi di silenzio, di attesa, di apparente assenza di Dio non sono incidenti di percorso nel cammino della fede, ma ne fanno parte integrante. Sono momenti che ci accomunano all'esperienza dei discepoli e a quella di innumerevoli uomini e donne lungo la storia. Non sono tempi da fuggire o da riempire frettolosamente di rumore, ma da "abitare".

Abitare il silenzio non significa subirlo passivamente. Significa scegliere di rimanere presenti: presenti a noi stessi, con le nostre paure e le nostre domande; presenti a Dio, anche quando la sua voce sembra lontana. Significa coltivare un ascolto interiore più profondo, un'attenzione vigile.

Siamo invitati ad abitare questi tempi con la stessa "quieta fiducia". La fiducia di Maria, ma anche quella, nata nel crogiolo della crisi, di Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo. La fiducia che il seme gettato nel solco oscuro della sofferenza, della morte e del silenzio non marcisce inutilmente, ma sta preparando un frutto inaspettato.

Possiamo allora accogliere i nostri "sabati santi", personali e collettivi, non come tempi di vuoto e disperazione, ma come spazi potenzialmente fecondi. Spazi per approfondire la nostra fiducia in Dio al di là delle evidenze sensibili, per coltivare la virtù tenace della speranza, e per aprirci all'azione nascosta ma potente di Colui che, dal silenzio più profondo, sa sempre far scaturire una nuova aurora di vita.

La danza eterna dell'amore: scoprire la Trinità nel cuore della vita

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C'è un desiderio profondo che risuona in ognuno di noi, una sete di significato, di legami autentici, di un senso di appartenenza che va oltre il quotidiano. Lo sentiamo quando ci perdiamo nell'immensità di un tramonto o quando un'onda di nostalgia ci travolge, spingendoci a cercare qualcosa di più grande. Questa ricerca incessante non è solo un sentire interiore, ma un richiamo silenzioso a una realtà più vasta: un mistero divino che non è lontano, ma intrecciato alla trama della nostra stessa vita. È il cuore di Dio, un Dio che non è un'idea statica e distante, ma una vibrante comunione d'amore, un invito costante a entrare nella sua danza.

La Sapienza creatrice: un gioco d'amore divino

Immaginiamo la Sapienza di cui parlano i Proverbi (8,22-31): una figura presente con Dio prima ancora che il mondo fosse creato, una collaboratrice gioiosa. Il testo la descrive mentre "giocava davanti a lui in ogni istante, giocava sul globo terrestre, ponendo le sue delizie tra i figli dell'uomo". Questo "gioco" non è un passatempo frivolo, ma un atto che nasce da una passione profonda, da un amore sconfinato. Non si gioca per necessità, per dovere o per ottenere un risultato esterno. Si gioca per la pura gioia del giocare. Applicare questa metafora a Dio significa affermare che la creazione non è un atto necessario, quasi che Dio avesse bisogno del mondo per colmare una sua mancanza o per realizzarsi. Al contrario, la creazione è l'espressione più alta della libertà e della sovrabbondanza divina. È un atto di puro piacere, di bellezza gratuita, un'opera d'arte scaturita non da un bisogno, ma da un eccesso d'Amore.

Questo "gioco" della creazione non è un evento concluso miliardi di anni fa, finito nel passato, ma continua ancora oggi. È un invito perenne, rivolto a ciascuno di noi. Ci è data la possibilità di "entrare nel gioco", di partecipare con la nostra libertà, la nostra creatività e il nostro amore all'opera continua di Dio nel mondo, trasformando il nostro fare in una gioiosa co-creazione. La vita spirituale, allora, cessa di essere percepita come un fardello di precetti e si trasforma in una partecipazione gioiosa e appassionata alla danza creativa e redentrice di Dio.

Forse l'autore dei Proverbi non aveva la visione completa della Trinità come la conosciamo noi oggi. Eppure, la tradizione cristiana ha riconosciuto in questa Sapienza una chiara anticipazione di Cristo, il Verbo, attraverso il quale ogni cosa è stata fatta.

Dio è Amore: la Trinità come comunità dinamica

A differenza del "motore immobile" della filosofia, un Dio statico e indifferente, la Scrittura rivela con forza che "Dio è Amore" (1 Gv 4,8). la conseguenza logica è stringente e meravigliosa. L'amore non può esistere nella solitudine; un amore puramente autoreferenziale non è amore, ma narcisismo. L'amore esige un "altro": un amante presuppone un amato. Se Dio fosse una monade solitaria, un'unica persona chiusa in sé, come potrebbe essere eternamente e pienamente Amore prima e indipendentemente dalla creazione? Nel cuore stesso di Dio, questo amore è così pieno e perfetto da prendere la forma di una Persona: lo Spirito Santo, il legame vivente tra il Padre (l'Amante) e il Figlio (l'Amato). Riconoscere la Trinità significa accogliere un Dio che è mistero di comunione e donazione, non un essere chiuso in sé, ma pura comunicazione.

I teologi chiamano questa dinamica "pericoresi", una parola greca che evoca l'idea di una "danza circolare". Immaginiamo il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo muoversi in un abbraccio reciproco, accogliendosi e amandosi, pur mantenendo la propria identità, per divenire UNO. Questa "danza nuziale" è il ritmo eterno della vita trinitaria, un movimento incessante di amore e armonia.

La creazione del mondo, in questa prospettiva, non nasce da una mancanza in Dio, ma dalla sua sovrabbondante pienezza d'amore, è l'espressione esteriore di questa delizia trinitaria. Se Dio è una "danza d'amore", come questo trasforma il nostro modo di vivere le relazioni? Ci spinge a riflettere sull'amore stesso, che per essere autentico deve essere dinamico, comunicativo e relazionale, proprio come Dio.

L'impronta della comunione: la Trinità nella creazione

La dinamica di amore e comunione che esiste in Dio non resta confinata al divino, ma si riflette in tutta la creazione, in modo particolare nell'essere umano. La dinamica di comunione che costituisce Dio si riflette, come in un sigillo, in ogni opera delle sue mani.  L'apostolo Paolo ci ricorda che le perfezioni invisibili di Dio, la Sua eterna potenza e divinità, si possono comprendere proprio osservando le opere che Lui ha compiuto (Rm 1,20).

Questa è una delle intuizioni più care alla tradizione francescana, magnificamente sistematizzata dal Dottore Serafico, san Bonaventura da Bagnoregio. Per lui, l'universo intero è come un grande "libro" o uno specchio in cui si possono leggere le orme (vestigia) della Trinità che lo ha creato. Sono le "vestigia Trinitatis", le "tracce" o "impronte" della Santissima Trinità nel mondo creato, in ogni cosa che esiste, dalla più piccola particella alla più grande galassia. Non una prova, ma una lente che, dopo la rivelazione di Cristo, ci permette di intuire il mistero di Dio e di vedere la natura stessa delle cose alla luce divina. Questa visione offre una base teologica profonda per una spiritualità ecologica. Se ogni creatura porta in sé l'impronta della comunione trinitaria, allora rispettare le delicate interconnessioni degli ecosistemi, custodire la biodiversità, ammirare la bellezza del creato non sono solo doveri etici o gesti di buon senso, ma diventano un atto di contemplazione, un modo per onorare e venerare le "orme" lasciate dalla Danza divina sul mondo.

Da qui nasce anche il senso più profondo della salvezza: se la creazione nasce dalla comunione trinitaria e l'uomo è fatto a sua immagine, essere salvati significa essere "catturati" in questa comunione. Significa essere abitati da Dio e abitare in Lui, aprendoci in modo che anche gli altri possano trovare spazio in noi, e noi in loro. La salvezza non è solo perdono, ma una restaurazione della nostra capacità di partecipare a quella stessa comunione, un cammino per diventare sempre più simili al Dio Trino, più pienamente relazionali.

Lo Spirito Santo: guida alla verità e all'amore eterno

Come possiamo noi, creature fragili e limitate, entrare in questo mistero di comunione? Come può la danza eterna di Dio diventare la nostra danza? La risposta ci viene offerta da Gesù nel suo discorso di addio agli apostoli, nel Vangelo di Giovanni. Egli sa che il mistero della sua persona e della sua relazione con il Padre è troppo grande per loro: "Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso" (Gv 16,12). Il loro cuore e la loro mente non sono ancora pronti ad accogliere la pienezza della verità.

Gesù promette la venuta dello Spirito Santo, il Paraclito, che guiderà i discepoli "alla verità tutta intera" e annuncerà "cose future". Questa promessa non significa una conoscenza immediata e perfetta, ma un invito a un cammino continuo di scoperta e crescita nella comprensione del cuore di Dio e della nostra vera umanità. Quando Gesù dice che lo Spirito "vi annuncerà le cose future" (Gv 16,13), non si riferisce a una sorta di divinazione. Si tratta di un dono molto più prezioso: la capacità, infusa dallo Spirito, di leggere la nostra storia personale e quella del mondo non come una sequenza casuale di eventi, ma alla luce della vittoria pasquale di Cristo e della nostra destinazione finale, che è la piena e gioiosa partecipazione alla vita trinitaria.

Maria e il coraggio di camminare: dalla paura alla fede

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Un mese mariano nel cuore della pasqua

Maggio è arrivato, portando con sé la bellezza della primavera e la devozione speciale che la tradizione dedica a Maria. Ma questo mese non è un'isola nel calendario liturgico. Si inserisce pienamente nel Tempo Pasquale, un periodo luminoso segnato dall'Alleluia, dalla scoperta progressiva del Cristo Risorto e dall'attesa dello Spirito Santo promesso a Pentecoste.

Contemplare Maria a Maggio significa, quindi, guardare a lei all'interno di questo mistero centrale della nostra fede. La preghiera del Regina Caeli, tipica di questo tempo, ci invita a gioire con lei per la Risurrezione del Figlio. Maria diventa così la guida perfetta per imparare a vivere la fede pasquale, specialmente nell'attesa fiduciosa dello Spirito.

Ma come i primi discepoli, anche noi possiamo sentirci smarriti, timorosi. Ed è qui che la presenza silenziosa e forte di Maria ci viene in aiuto, invitandoci a guardare oltre le nostre paure.

Chiusi nel Cenacolo: la paura ieri e oggi

I giorni che trascorsero tra la Risurrezione e la Pentecoste videro i discepoli riuniti nel Cenacolo, timorosi e incerti sul futuro. Nonostante il Risorto fosse apparso loro più volte, rimanevano paralizzati dalla paura. Questa condizione non riflette forse la nostra situazione attuale?

Anche noi, pur professando la fede nel Risorto e avendone forse fatto esperienza nei momenti di rinascita personale, nelle riconciliazioni inaspettate, nella scoperta di un senso più profondo nelle difficoltà, continuiamo a vivere nel timore. Le guerre che devastano diverse parti del mondo, la violenza che sembra permeare ogni aspetto della società e le divisioni che lacerano persino la comunità ecclesiale contribuiscono certamente a questo clima di apprensione. Sono paure reali.

Ma c'è una paura più sottile, forse la più insidiosa: la paura del cambiamento. Viviamo in un'epoca di trasformazioni veloci che ci destabilizzano, ci fanno sentire come se perdessimo l'equilibrio. Ci aggrappiamo al conosciuto, resistiamo al nuovo, temendo di perdere la nostra identità o la nostra fede. Ma siamo sicuri che questa resistenza sia vera fedeltà e non, piuttosto, paura di lasciar andare il controllo e, per questo, poca fede?

Camminare è perdere l'equilibrio: la fede come fiducia nel movimento

Pensiamo a come camminiamo: ogni passo è un piccolo rischio, una perdita momentanea di equilibrio per poter avanzare. È un continuo sbilanciarsi e ritrovarsi. L'immobilità è segno di morte; il movimento, anche incerto, è vita. Applicando questo alla vita spirituale, capiamo che crescere nella fede, essere fedeli al Vangelo in un mondo che cambia, richiede la capacità di accettare l'instabilità, di "perdere l'equilibrio" per poter andare avanti. La paura del cambiamento assomiglia alla paura di fare il primo passo.

Per camminare serve fiducia: nel nostro corpo, nel terreno, nella meta. Allo stesso modo, per affrontare i cambiamenti della vita e della Chiesa serve una profonda fiducia spirituale: fiducia che Dio è presente anche nel caos, che lo Spirito guida la storia, che Cristo è il nostro appoggio sicuro anche quando le certezze umane vacillano. Questa fiducia dinamica è la fede. La fede non elimina l'instabilità, ma la trasforma in progresso.

Se la fede è questa fiducia che permette di camminare nell'incertezza, allora la paura paralizzante del cambiamento potrebbe essere un sintomo di una fede debole. Una resistenza ostinata al nuovo può nascondere la difficoltà a credere davvero che Dio è il Signore della storia e agisce anche oggi, in modi che non sempre capiamo. Risuona la domanda di Gesù: "Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?" (Lc 18,8). È legittimo interrogarsi se la nostra angoscia di fronte al cambiamento non sia, in fondo, espressione di una fede vacillante.

Colei che rimase fedele e ci sprona all'audacia

Torniamo al Cenacolo. Mentre molti erano paralizzati dalla paura, gli Atti degli Apostoli ci dicono che Maria, "la madre di Gesù", era lì, perseverante nella preghiera insieme agli altri (Atti 1,14). Lei, che aveva già accolto lo Spirito e custodito tutto nel suo cuore (Lc 2,19), diventa il punto fermo, la custode della fede per la comunità nascente. La sua presenza orante non è solo conforto, ma un vero sostegno spirituale che prepara la Chiesa a ricevere il dono della Pentecoste.

Maria compie questa missione al modo di una madre. Come madre, si preoccupa che i suoi figli siano pronti per l'incontro più importante della loro vita: quello con lo Spirito Santo. E come ogni madre, desidera che siano preparati, "in ordine". L'amore di Maria per noi, suoi figli è tenero ma anche esigente. Come una buona madre desidera la crescita e la piena realizzazione dei figli, così Maria ci sprona alla santità, a dare il meglio di noi stessi, ad avere il coraggio della fede. Questo suo desiderio non è in contrasto con la misericordia di Dio, ma ne è un riflesso. Maria ci vuole santi perché Dio ci vuole santi (Ef 1,4).

La “santa esigenza” di Maria

Contrariamente a una visione riduttiva che talvolta ci viene proposta, Maria non è "più buona e misericordiosa" di Dio. Piuttosto, la sua bontà si manifesta proprio nella sua santa esigenza, tipica dell'amore materno autentico. Ci ama troppo per lasciarci nella mediocrità spirituale; desidera per noi il meglio.

Il comportamento di Maria nei nostri confronti è caratterizzato da un incoraggiamento a osare, anche quando ciò sembra andare contro la prudenza umana. La sua stessa vita è un esempio di questa fede audace, pensiamo all'episodio delle nozze di Cana, dove sollecita Gesù a compiere il suo primo segno nonostante l'apparente riluttanza iniziale del Figlio. Ma ancora più emblematico è il momento dell'Annunciazione, quando Maria, con audacia spirituale, pronuncia il suo "sì" a qualcosa di umanamente incomprensibile, affrontando lo scandalo e l'incomprensione sociale.

La sua fedeltà raggiunge il culmine sotto la croce, dove rimane ferma mentre il suo cuore viene trafitto da una spada di dolore. Lì dove qualsiasi madre sarebbe stata sopraffatta dalla disperazione, Maria resta eretta, sostenuta unicamente dalla fede. L'evangelista Giovanni la descrive mentre "stava" (histēmi) presso la croce. In piedi, non prostrata, testimone di una fede che resiste anche di fronte alla morte.

L'amore esigente di Maria ci chiama quindi a uscire dalla passività e dalla paura, a diventare protagonisti coraggiosi della nostra fede e della missione della Chiesa.

Affidarsi a Maria per camminare nella fede

Guardiamo a Maria come modello per superare la paura, specialmente quella del cambiamento che ci fa temere la perdita di equilibrio. Lei ci insegna che proprio accettando l'instabilità con fiducia – cioè con fede – possiamo camminare e crescere.

Il suo amore materno, forte e tenero, ci sprona a non accontentarci, a osare nella fede come ha fatto lei. La vera fede non consiste nel rimanere aggrappati alle certezze del passato, ma nell'affidarsi al Dio che fa nuove tutte le cose.

Affidiamoci dunque a questa Madre esigente e amorevole, chiedendole di aiutarci a riconoscere i segni della presenza di Dio nelle trasformazioni che talvolta ci spaventano. Con lei come guida, possiamo imparare a "stare" saldi nella prova e a "camminare" con speranza, anche quando l'equilibrio sembra precario, passando dal cenacolo chiuso delle nostre paure all'apertura gioiosa della Pentecoste.

Osanna e Crocifiggilo: Il Cuore Volubile dell'Uomo

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La Domenica delle Palme segna un momento cruciale e paradossale nel racconto evangelico: l'ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, preludio però ai giorni drammatici della Passione. Questo evento, carico di simbolismo e significato, ci offre alcune riflessioni sulla natura della fede, sulla volubilità del cuore umano e sull'infinita misericordia di Dio.

Un Re Messianico Sull'Asina: L'Ingresso a Gerusalemme

Narrato da tutti e quattro gli evangelisti, l'arrivo di Gesù a Gerusalemme attraverso il Monte degli Ulivi, passando vicino ai villaggi di Bètfage e Betània, assume i contorni di un'investitura regale. La folla, composta in gran parte da pellegrini e discepoli galvanizzati dai prodigi a cui avevano assistito, lo acclama come il Messia atteso, il Salvatore promesso. Stendono i mantelli sulla strada, un gesto antico riservato all'intronizzazione dei re d'Israele, e agitano rami, gridando con gioia: «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!».

Il loro grido, "Osanna!", deriva dall'ebraico Hoshana ("Salvaci, ti preghiamo"), ma nel tempo si era trasformato in un'esclamazione di giubilo e lode, un riconoscimento della regalità divina e della speranza nella salvezza imminente. Tuttavia, la regalità di Gesù si manifesta in modo radicalmente diverso dai sovrani terreni. Egli non cavalca un cavallo, simbolo di potere militare e spesso associato ai re disobbedienti del passato, ma sceglie un umile puledro d'asina. Questa scelta, in adempimento delle profezie (Zaccaria 9,9), è un potente segno di pace, mitezza e di un regno che non si impone con la forza, ma si offre nell'umiltà.

Il Drammatico Voltafaccia: La Fragilità del Cuore Umano

Eppure, l'entusiasmo festante dell'Osanna si trasformerà, in pochi giorni, nel grido agghiacciante: "Crocifiggilo!". Come può avvenire un cambiamento così radicale? Questo drammatico voltafaccia rivela la profonda fragilità e instabilità del cuore umano. Diversi fattori concorrono a spiegare questa inversione:

  • Paura: Sostenere un Messia che sfidava apertamente le autorità religiose e politiche comportava rischi concreti. La paura delle ritorsioni ha certamente giocato un ruolo.
  • Manipolazione: I capi religiosi, sentendo minacciato il loro potere e la loro influenza, alimentarono attivamente il sospetto e l'ostilità verso Gesù, manipolando le emozioni della folla.
  • Delusione: Molti si aspettavano un Messia condottiero, un liberatore politico che restaurasse il regno terreno d'Israele. Quando Gesù non corrispose a queste aspettative, la delusione si trasformò facilmente in rifiuto.
  • Pressione Sociale: La psicologia della folla, il desiderio di conformarsi al gruppo dominante e la paura dell'isolamento spinsero molti a seguire la corrente, anche contro le proprie convinzioni iniziali.

Questa vicenda ci mostra come il cuore umano possa passare dall'adorazione alla condanna in un batter d'occhio, influenzato da paure, pressioni esterne ed emozioni passeggere.

L'Appello a una Fede Autentica e Radicata

L'episodio della Domenica delle Palme diventa così un potente monito sulla necessità di una fede autentica, che vada oltre l'entusiasmo momentaneo e i gesti esteriori. Siamo chiamati a coltivare una fede radicata nella Parola di Dio e in una relazione personale e consapevole con Lui, non sulle sabbie mobili dell'opinione pubblica o delle emozioni del momento.

Resistere alla manipolazione e alla pressione sociale richiede discernimento, coraggio e forza interiore. È fondamentale esaminare criticamente le proprie motivazioni e scelte, chiedendosi se siano dettate da una ricerca sincera della verità o da timori e convenienze. In un mondo dove le opinioni sono facilmente influenzabili e spesso imposte, mantenere la propria integrità diventa un atto di ribellione.

La Risposta Divina: L'Abbraccio della Misericordia

Di fronte a questa umana fragilità, capace di passare dall'Osanna al "Crocifiggilo", la risposta di Dio è straordinaria: la Sua incrollabile misericordia. Nonostante il tradimento, l'abbandono e il rifiuto, Dio non chiude mai la porta. Gesù stesso, sulla croce, prega per i suoi aguzzini ("Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno").

La Pasqua, che segue questi eventi, è la celebrazione suprema di questa misericordia: l'amore di Dio è più forte del peccato, del tradimento e persino della morte. Egli offre sempre una seconda possibilità, un perdono incondizionato a chi si rivolge a Lui con cuore sincero.

La storia contrastante della Domenica delle Palme ci invita a una profonda meditazione sulla complessità del nostro stesso cuore, sulle nostre oscillazioni tra fede ed esitazione, tra generosità e paura. Ma, soprattutto, ci ricorda che, nonostante le nostre debolezze e cadute, l'abbraccio misericordioso di Dio rimane sempre aperto, pronto ad accoglierci e a rinnovarci.

Riconoscere il Risorto sulle Rive della Vita Quotidiana

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Il Vangelo di Giovanni ci accompagna, dopo il terremoto interiore della Pasqua, sulle sponde familiari del Mare di Tiberiade (cfr. Gv 21,1-19). Non siamo nel chiuso del Cenacolo, né in un giorno liturgicamente definito come "il primo della settimana" o "otto giorni dopo". Siamo semplicemente "dopo questi fatti", in un tempo che sembra quasi sospeso, feriale. E il luogo non è Gerusalemme, cuore della fede d'Israele, ma il Mare di Tiberiade, un nome che porta l'eco dell'impero romano, della politica, di una terra forse considerata impura, "pagana". È qui, in questo scenario di normalità, quasi di ritorno alla routine, che Gesù sceglie di manifestarsi. Non un'apparizione fugace, ma una rivelazione profonda che accade non nel tempio, ma sulla riva di un lago, durante un'attività lavorativa comune: la pesca.

Questo ci dice qualcosa di fondamentale sulla Pasqua e sulla presenza del Risorto. Egli non abita solo gli spazi sacri o i tempi forti della liturgia. Viene a cercarci nella nostra "Galilea", nel luogo delle nostre origini, certo, ma anche nel luogo del nostro lavoro quotidiano, delle nostre fatiche, delle nostre preoccupazioni. Si manifesta non necessariamente la domenica, ma in un giorno qualunque, mentre siamo intenti alle nostre occupazioni, forse persino distratti o scoraggiati. La sua presenza trasfigura l'ordinario, rivelando che ogni luogo e ogni tempo possono diventare spazio d'incontro con Lui.

La Notte della Fatica e l'Iniziativa Umana

È notte. Un tempo che nel Vangelo di Giovanni spesso simboleggia l'assenza della luce di Cristo, il tempo in cui "nessuno può agire" («Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire», Gv 9,4). Ed è in questa notte che Pietro, forse per scacciare l'incertezza, forse per un bisogno di tornare a ciò che conosceva bene, dichiara: "Io vado a pescare". Non è un mandato ricevuto, non è un'ispirazione dello Spirito; è un'iniziativa personale, umana. Gli altri discepoli lo seguono: "Veniamo anche noi con te".

Escono, salgono sulla barca, gettano le reti con la perizia di pescatori esperti. Ma il risultato è nullo: "quella notte non presero nulla". È l'immagine potente della sterilità dell'agire umano, anche quando competente e collaborativo, se sganciato dalla sorgente della Vita, se intrapreso di notte, senza la luce della Sua Parola e della Sua presenza. Quante volte anche noi, nelle nostre vite personali, nelle nostre comunità, intraprendiamo iniziative basate sulle nostre forze, sulle nostre analisi, sulla nostra buona volontà, ma al di fuori di un vero ascolto dello Spirito, di un mandato che viene da Lui? E quante volte, dopo tanta fatica, ci ritroviamo a mani vuote, con le reti della nostra anima desolatamente vuote? Quella notte sul lago è la notte di ogni sforzo che non nasce dall'ascolto profondo di Dio.

L'Alba dell'Incontro e la Parola che Feconda

Ma la notte non è per sempre. "Quando già era l'alba, Gesù stette sulla riva". La luce sorge, e con essa la presenza discreta, quasi nascosta, del Signore. Loro non lo riconoscono subito. Hanno bisogno di una parola, di un segno. È Lui a prendere l'iniziativa, con una domanda carica di tenerezza: "Figlioli, non avete nulla da mangiare?". La loro risposta è la confessione della loro impotenza: "No".

È a questo punto, nel riconoscimento del loro limite, della loro incapacità a produrre frutto da soli, che la Parola del Risorto può intervenire con potenza creatrice: "Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete". Non dice semplicemente "riprovate", ma dà un'indicazione precisa, forse illogica secondo le consuetudini, ma autorevole. E loro, nonostante la stanchezza e la delusione, obbediscono. 

L'obbedienza alla Sua Parola trasforma la sterilità in fecondità sovrabbondante: "non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci". È il segno che l'efficacia della nostra vita, della nostra missione, non dipende primariamente dalle nostre capacità o strategie, ma dalla nostra docilità alla Sua voce, anche quando ci chiede di gettare le reti in direzioni inaspettate o umanamente poco promettenti.

Riconoscere la Presenza nell'Amore e nella Cura

È l'abbondanza del dono, frutto dell'obbedienza, a far scattare il riconoscimento. Il discepolo amato, colui che vive nell'intimità del cuore di Gesù, intuisce per primo: "È il Signore!". Possiamo affermare che soltanto colui che ha esperienza dell’amore di Gesù sa leggere i segni. L'amore apre gli occhi dell'anima. Pietro, scosso da questa rivelazione, si getta in mare, con un gesto che esprime tutta la sua foga e forse il suo desiderio di riparare.

Ma il riconoscimento più pieno avviene a terra, davanti a un altro segno, ancora più intimo e disarmante: "videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane". Gesù non li aspetta a mani vuote. Ha già preparato per loro, si è preso cura dei loro bisogni primari, della loro fame, della loro stanchezza. È il Dio che serve, che cucina per i suoi figli. Quel fuoco di brace richiama forse l'altro fuoco, quello del tradimento di Pietro, ma ora è trasformato in calore di perdono e di comunione.

Gesù li invita: "Venite a mangiare". E in quel gesto semplice e familiare di spezzare il pane e dare loro il pesce, eco dell'Eucaristia, ogni dubbio svanisce: "sapevano bene che era il Signore". Lo riconoscono non solo nella potenza del miracolo, ma nella tenerezza della sua cura, nella familiarità dei suoi gesti.

Chiede anche il loro pesce, non perché ne abbia bisogno, ma per valorizzare il frutto della loro obbedienza, per integrare la loro fatica nel suo dono. La nostra vita, la nostra missione, è questa meravigliosa sinergia: il suo dono che ci precede e ci sostiene, e il nostro piccolo contributo, reso fecondo dalla sua Parola, che Egli accoglie e integra nella sua opera di salvezza.

Vivere la Pasqua nel Quotidiano

Cosa ci dice oggi questo Vangelo? Ci ricorda che il Signore Risorto non è confinato nelle nostre chiese o nelle nostre celebrazioni. Egli cammina sulle rive della nostra vita quotidiana, si fa presente nei nostri luoghi di lavoro, nelle nostre case, nelle nostre relazioni. Si manifesta non solo nei momenti di preghiera esplicita, ma anche attraverso le circostanze, gli incontri, le parole inattese che ci raggiungono.

Ci invita a discernere le nostre "notti", quei momenti in cui ci affanniamo basandoci solo sulle nostre forze, sulle nostre iniziative, magari anche generose, ma non radicate in un ascolto profondo della sua volontà. Ci chiama a riconoscere la sterilità di un agire che non parte da Lui.

E ci invita, soprattutto, a stare in ascolto della sua voce che ci raggiunge all'alba, dopo le nostre notti infruttuose. Ci chiede di fidarci della sua Parola, anche quando ci indica strade che la nostra logica umana scarterebbe. Ci chiede di gettare le reti "dalla parte destra", dalla parte della fede, dell'abbandono fiducioso, della carità gratuita.

Solo così la nostra vita può diventare feconda. Solo così possiamo sperimentare l'abbondanza del suo dono. E solo così, nell'esperienza di una vita resa fruttuosa dalla sua grazia e nella contemplazione della sua cura premurosa per noi, possiamo davvero riconoscerlo e dire, con il cuore pieno di stupore e gratitudine: "È il Signore!". La Pasqua si vive così: lasciando che la Sua presenza risorta illumini e fecondi la nostra Galilea quotidiana.