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Amati "fino alla fine": Quando la Realtà Incontra la Grazia

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Quante volte ci accade? Partiamo con i migliori propositi, nutriamo aspettative luminose, sogniamo traguardi nobili. Poi, arriva il momento di agire, di “tirare le somme”, e ci ritroviamo in una situazione ben diversa, lontana da quell’ideale che avevamo accarezzato nel cuore. È un’esperienza umana comune, quasi universale: la realtà, con le sue asperità e i suoi imprevisti, raramente coincide perfettamente con i nostri desideri. Potremmo quasi dire che questa discrepanza tra l’ideale e il reale sia una costante della condizione umana.

Forse ci sorprende pensare che una simile esperienza possa aver toccato, in qualche modo, anche Gesù. Non certo perché Egli sia venuto meno ai suoi intenti divini, ma perché la situazione in cui si trovò nel momento culminante della sua missione terrena, quella che il Vangelo chiama la “sua ora” (Gv 13, 1), era tutt’altro che ideale. Non fu Lui a fallire, ma attorno a Lui si addensavano le ombre del fallimento umano. Giunse al vertice della sua vocazione, al momento per cui era venuto nel mondo, circondato da delusioni profonde: non solo il tradimento che già maturava nel cuore di uno dei suoi, ma anche l’incomprensione diffusa, la paura e persino la presunzione degli altri amici più stretti, come Pietro che di lì a poco avrebbe proclamato una fedeltà presto smentita dai fatti. Era una realtà intrisa di fragilità, incomprensione e imminente abbandono.

Eppure – ed è qui che il cuore si commuove e la mente si stupisce – proprio in quel contesto, “sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre” (Gv 13, 1), “nella notte in cui veniva tradito” (1 Cor 11, 23), Gesù compì un gesto che sigilla la sua intera esistenza: “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13, 1). L'amore perfetto di Dio non attende condizioni ideali per manifestarsi; anzi, sceglie proprio il terreno accidentato della nostra imperfezione, del nostro tradimento e della nostra incomprensione per rivelarsi in tutta la sua potenza gratuita e incondizionata. Se l'amore divino avesse richiesto destinatari perfetti o circostanze favorevoli, non avrebbe potuto risplendere con tanta intensità proprio in quel momento cruciale. La scelta di Gesù di amare “fino alla fine” proprio lì, in mezzo a quella realtà così deludente, ci svela una verità fondamentale: l'amore di Dio non è una ricompensa per la nostra bravura, ma un dono che si riversa proprio là dove c’è più bisogno, nella nostra debolezza e nel nostro peccato. Questo capovolge la nostra logica umana, che spesso ci porta a ritirare l'amore o l'impegno di fronte alla delusione. L'esempio di Gesù ci chiama a un amore diverso, un amore che persevera nonostante tutto.

Il Gesto Inaudito: Dio si China sui Nostri Passi Incerti

In quella cornice carica di tensione e di amore imminente, Gesù compie un gesto che rimarrà impresso per sempre nella memoria dei suoi discepoli e della Chiesa: la lavanda dei piedi (Gv 13, 1-15). Il racconto evangelico sottolinea la piena consapevolezza e la solennità del momento: Gesù si alza da tavola, depone le vesti – quasi un simbolo del suo spogliarsi della gloria divina – prende un asciugamano e se lo cinge ai fianchi, come un servo. Poi versa dell’acqua in un catino e, uno ad uno, inizia a lavare i piedi dei suoi discepoli e ad asciugarli.

Era un compito umiliante, solitamente riservato agli schiavi o ai servi di rango più basso nell'ospitalità del tempo. Che fosse il Maestro, il Signore – “Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono” (Gv 13, 13) – a compierlo, era un rovesciamento radicale delle gerarchie e delle aspettative. Non si trattava di semplice cortesia, ma di una potente lezione visiva sull'essenza stessa di Dio: un Dio che si abbassa, che si fa servo per amore dell'uomo. Quel gesto prefigurava l'umiliazione suprema della Croce, il servizio ultimo offerto per la nostra salvezza.

Chinandosi, Gesù vede la polvere e il fango sui piedi dei suoi amici. Vede, simbolicamente, le strade sbagliate che hanno percorso, le deviazioni, le ferite, la “sporcizia” accumulata nel cammino della vita. Non si ritrae disgustato, ma con tenerezza lava via quella sporcizia. È l'immagine di Dio che non teme di incontrarci nella nostra realtà più scomoda e imperfetta, che vede i nostri errori e i nostri peccati non per condannarci, ma per offrirci la purificazione del suo amore misericordioso.

La reazione di Pietro è emblematica della nostra fatica umana (Gv 13, 6-9). “Signore, tu lavi i piedi a me?”. Non è solo sorpresa, è quasi scandalo. Dietro la sua protesta si cela la nostra difficoltà ad accettare un amore così gratuito e umiliante, un amore che non ci siamo meritati e che ci raggiunge proprio nella nostra indegnità. Fatichiamo a mostrarci vulnerabili, a lasciarci servire e amare da Dio senza pretendere di averne prima guadagnato il diritto. La risposta di Gesù è netta e carica di significato: “Se non ti laverò, non avrai parte con me” (Gv 13, 8). Non è una minaccia, ma la rivelazione di una condizione essenziale. Accogliere questo servizio umile e purificatore è indispensabile per entrare in comunione (“avere parte”) con Lui. Significa deporre l'orgoglio, abbandonare le nostre misure umane di dignità e accettare la logica sconcertante della grazia divina. Rifiutare questo gesto significa rifiutare il modo stesso in cui Dio ha scelto di salvarci: attraverso l'amore che si abbassa e si dona. Lasciarsi lavare i piedi da Gesù è il primo passo per entrare nella comunione profonda con Lui, riconoscendo il nostro bisogno del suo amore che purifica e rinnova.

Incontrare Gesù, Colui che Guarisce: Il Dono dell'Eucaristia

Se la lavanda dei piedi ci mostra l'umiltà di Dio che si china sulla nostra povertà, l'istituzione dell'Eucaristia ci rivela la pienezza del suo dono d'amore. L'apostolo Paolo, nella sua Prima Lettera ai Corinzi, ci trasmette una delle testimonianze più antiche di questo evento fondante, un racconto che egli stesso dichiara di aver “ricevuto dal Signore” (1 Cor 11, 23). La sua narrazione, forse addirittura precedente alla stesura dei Vangeli sinottici, ci riporta a quella notte carica di significato.

Paolo scrive: “il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me»” (1 Cor 11, 23-25). È interessante notare la scelta precisa delle parole: Paolo non dice semplicemente "il Signore", ma "il Signore Gesù".

Perché questa specificazione? Mentre il titolo "Signore" (Kyrios) sottolinea la divinità di Cristo e la sua vittoria sulla morte nella Risurrezione, il nome proprio "Gesù" ci riporta all'uomo di Nazareth, al Figlio di Dio incarnato. Ci ricorda Colui che ha camminato sulle strade polverose della Palestina, che è entrato nelle case della gente comune, che ha mangiato con i pubblicani e i peccatori, che ha toccato i lebbrosi, guarito i malati, consolato gli afflitti. Il nome "Gesù" ancora il mistero sublime dell'Eucaristia nella concretezza della sua vita terrena, nel suo ministero di compassione e guarigione. Paolo, scrivendo a una comunità forse tentata da divisioni o da una spiritualità disincarnata, ancora saldamente il sacramento all'evento storico della salvezza operata da quel Gesù, attraverso la sua passione, morte e risurrezione.

Allora, ricevere l'Eucaristia non è solo partecipare a un rito sacro o ricevere una grazia astratta. È incontrare personalmente Gesù, il Signore risorto ma anche l'uomo che ha conosciuto la nostra umanità, che si è chinato sulle nostre ferite e continua a farlo. È ricevere il tocco del Medico divino, Colui che non è venuto per i sani ma per i malati, non per i giusti ma per i peccatori. L'Eucaristia diventa così la continuazione del suo ministero di guarigione, un incontro vivo e trasformante con Colui che offre se stesso come cibo e bevanda per la nostra salvezza e la nostra vita. È un incontro profondamente personale e relazionale con il Salvatore che conosce il nostro nome e le nostre necessità.

Dai Piedi Lavati al Pane Spezzato: Riconoscere il Bisogno per Accogliere il Dono

Esiste un filo rosso che lega indissolubilmente il gesto della lavanda dei piedi all'istituzione dell'Eucaristia. L'umiltà necessaria per permettere a Gesù di lavare i nostri "piedi sporchi" – simbolo dei nostri peccati, delle nostre fragilità, delle strade sbagliate che abbiamo percorso – è la stessa disposizione interiore richiesta per accostarci degnamente alla Mensa eucaristica.

Spesso, ci sentiamo inadeguati, "indegni" di ricevere il Corpo e il Sangue di Cristo a causa delle nostre mancanze. È un sentimento comprensibile, che nasce dalla consapevolezza della santità di Dio e della nostra povertà. Tuttavia, se ci fermiamo a questa sensazione di indegnità, rischiamo di fraintendere la natura stessa del dono eucaristico. Gesù non ha istituito questo sacramento come premio per i perfetti, ma come farmaco per i malati, come sostegno per i deboli, come cibo per i pellegrini affamati.

La condizione fondamentale per ricevere l'Eucaristia non è l'aver raggiunto uno stato di purezza impeccabile – obiettivo irraggiungibile con le sole nostre forze – ma il riconoscere umilmente il nostro bisogno profondo del suo amore, del suo perdono, della sua guarigione. Pensare di doverci rendere perfettamente "puliti" prima di poterci accostare a Lui è come pensare che un malato debba guarire da solo prima di andare dal medico. È proprio perché siamo peccatori, perché abbiamo i "piedi sporchi", che abbiamo bisogno di Lui.

Gesù offre il suo corpo "per voi", per noi (1 Cor 11, 24). Egli dà la sua vita per noi, non per i nostri meriti, ma per la nostra salvezza. Il suo sacrificio è offerto proprio a chi non lo merita, a chi, come i discepoli in quella notte, è fragile, impaurito, persino capace di tradire. Rifiutare l'Eucaristia per un malinteso senso di indegnità significa, in un certo senso, rendere "vano" questo dono supremo d'amore, perché si rifiuta la medicina offerta proprio per la nostra malattia. Sarebbe come ripetere il gesto iniziale di Pietro che rifiutava la lavanda dei piedi. La vera "indegnità", di cui parla anche Paolo (1 Cor 11, 27), non sta tanto nell'essere peccatori, quanto nell'accostarsi con superficialità, senza riconoscere la grandezza del dono e il nostro bisogno radicale di esso, o nel partecipare al banchetto dell'unità covando nel cuore divisioni e rancori (1 Cor 11, 17-22, 27-34), che contraddicono l'amore che l'Eucaristia significa e realizza.

L'Eucaristia è il compimento dell'amore manifestato nella lavanda dei piedi: è il dono totale di sé – corpo dato e sangue versato (1 Cor 11, 24-25) – offerto per la nostra vita e la nostra guarigione. Riconoscere il nostro bisogno (come nel lasciarsi lavare i piedi) ci apre ad accogliere la pienezza del dono (l'Eucaristia). La vera disposizione non è sentirsi degni, ma sentirsi bisognosi e amati.

Amare fino alla Fine – La Forza di Gettare Ancora le Reti

Come rispondere, allora, nella nostra vita quotidiana, quando la realtà si discosta dai nostri ideali? Quando le delusioni vengono dagli altri, o, cosa forse ancora più dolorosa, quando siamo noi stessi la causa dello scarto tra ciò che vorremmo essere e ciò che siamo, tra il bene che desideriamo e il male che finiamo per compiere?

La tentazione è forte: lasciar perdere tutto, arrendersi allo scoraggiamento, credere che sia impossibile recuperare. A volte sono voci interiori, altre volte voci esterne che ci sussurrano: "È inutile, non ce la farai mai", "Hai sbagliato troppo, ormai è tardi".

Ma il Vangelo ci offre un messaggio radicalmente diverso, incarnato nell'esempio di Gesù: "ama fino alla fine". Anche quando siamo noi ad aver contribuito al disordine, alla ferita, al fallimento, la chiamata rimane quella a perseverare nell'amore: amore verso Dio, amore verso gli altri, e persino un amore paziente e misericordioso verso noi stessi, che ci permette di ricominciare.

Da dove attingere la forza per un simile amore, che sembra andare contro ogni logica umana? La troviamo nella contemplazione di Gesù, che ha amato persino chi lo stava tradendo. La troviamo nella grazia che riceviamo nei sacramenti, in particolare nell'Eucaristia, quell'incontro personale con Gesù che guarisce e ristora. La troviamo nella fede nel potere dell'amore di Dio, un amore che è più forte del nostro peccato e della nostra debolezza.

Ci viene in mente l'immagine dei discepoli che, dopo una notte di pesca infruttuosa, sulla parola di Gesù gettano nuovamente le reti e sperimentano una pesca miracolosa (Lc 5, 4-7, Gv 21, 3-6). Gettare le reti "contro ogni buonsenso umano" diventa allora metafora del nostro agire nella fede e nell'amore, anche quando la ragione suggerirebbe di desistere. È un atto di fiducia nella promessa di Dio, nella sua capacità di trarre vita anche dalle nostre apparenti sconfitte, un atto nutrito dall'amore che abbiamo ricevuto da Lui.

L'invito che ci giunge è dunque un invito alla speranza. Gesù non si arrende di fronte alle nostre fragilità e ai nostri tradimenti; ci ama "fino alla fine". Nel suo amore instancabile, umile e guaritore, noi troviamo la forza per non arrenderci a nostra volta: per non smettere di amare, di servire, di perdonare, di sperare, e di gettare ancora le reti con fiducia, sapendo che è Lui a dare fecondità ai nostri sforzi quando sono compiuti nel suo nome e con il suo amore.

Eucarestia non pane moltiplicato ma con-diviso

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Nel mistero del Corpo del Signore è racchiuso il significato di tutta l'esistenza terrena di Gesù. Esso è segno del suo amore e della sua comunione con noi, ed è nutrimento non solo di vita eterna, ma anche viatico, o cibo per la fede dell'uomo durante il suo cammino terreno.

Qui però io mi limito a riflettere con voi sul significato della così detta "moltiplicazione dei pani" nel racconto evangelico di Luca.

Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: "Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta." Gesù disse loro: "Voi stessi date loro da mangiare."

Gli apostoli vogliono cavarsela a buon mercato offrendo un semplice consiglio. Ma dove troveranno pane e alloggio sufficienti per 5000 persone in un luogo deserto? Gesù, che non ha mai congedato nessuno a mani vuote, chiede loro di mettersi nei loro panni e farsi personalmente carico della loro fame.

A questo punto ai discepoli sembra che il Maestro suggerisca loro di compiere un grande atto di carità e dare alla gente quello che nel deserto non hanno: "200 denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo!". Facile quindi la loro risposta:

"Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente!"

Ecco la scusa: non hanno a sufficienza! Ma quello che per i discepoli è una scusa più che plausibile, per Gesù diventa la situazione ideale per il grande segno che sta per compiere: non solo per sfamare tutta quella gente; ma, ancora più, per insegnare loro il senso vero della solidarietà cristiana. Essa infatti non è tanto dare, magari anche con efficienza comprando e moltiplicando, quanto piuttosto spezzare, con-dividere quel poco che si ha, dando così qualcosa di sé stessi! “Se anche – paradossalmente – i discepoli avessero loro stessi comperato il pane per la gente, avrebbero compiuto un gesto di carità, non un segno che introduce nei rapporti una logica differente e in grado di rivelare un volto nuovo di Dio“ (B. Maggioni).

Così è il pane eucaristico: non un pane che Gesù prende di tasca sua per darlo a noi, affamati di cose materiali, ma il suo stesso corpo, “carne”, spezzata e interamente donata! Un atteggiamento che egli richiede anche dai suoi discepoli: "voi stessi date loro da mangiare!". Accettando infatti quella miseria di 5 pani e 2 pesci, Gesù accetta quello che per qualcuno fra la folla – San Giovanni parla di un ragazzo – era tutto ciò che aveva da mangiare quella sera, la sua cena sicura.

"Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla."

Li spezzò. Gesù quei pani non li moltiplica, li spezza! Il riferimento all'Eucarestia, poi, è chiaro: stesse parole e stessi gesti: prendere, alzare gli occhi al cielo, recitare la benedizione e dare. Gli stessi che egli userà nella sua ultima cena e che il sacerdote recita nella Messa al momento della Consacrazione.

Un grande insegnamento: mai separare l'Eucarestia dalla vita, il pane eucaristico dal pane terreno! Partecipare alla S. Messa non è solo ricordare il gesto di Gesù che morì in croce per darsi a noi in cibo; e neppure solo accoglierlo in dono con riconoscenza (eucharisteo = essere grato). Esso deve divenire anche un impegno a vivere anche noi così, dando agli altri gratuitamente quello che, poco o tanto che sia, abbiamo noi stessi ricevuto gratuitamente: doti personali, capacità, istruzione, beni, eredità. Senza tirchierie, senza centellinare: tutto, perfino la vita!

Ulteriore riflessione

Abbiamo visto che l'eucarestia, come quei 5 pani e 2 pesci messi a completa disposizione di Gesù, è segno del suo amore pieno e incondizionato per l'uomo. Ogni volta che ci accostiamo alla Comunione siamo quindi pienamente consapevoli della nostra indegnità e dell'inadeguatezza della nostra risposta al suo amore.

Per questo anche oggi è sempre attuale l'ammonimento di san Paolo ai Corinzi riguardo agli abusi presenti già al suo tempo durante la Messa, allora inserita, come l'Ultima Cena, in un contesto di banchetto: "Chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna!". Accostarsi al banchetto eucaristico è riconoscere il corpo del Signore e assumersi l'impegno a condividere con i fratelli quei doni di grazie e di amore che si sta ricevendo col pane eucaristico. Fare la comunione è quindi un impegno di conversione!

Per Gesù infatti non fa tanto difetto l'insensibilità dei suoi discepoli davanti alla fame della folla; e non è per lui un problema neanche il nostro egoismo e fragilità inter-relazionale che puntualmente riconosciamo ad ogni Messa prima di fare la comunione (Signore, non sono degno). Purché all'Eucarestia partecipiamo in spirito di sincera conversione, disposti cioè ogni volta a riconoscere gli sbagli fatti e a correggerci, cercando sempre di armonizzare il celebrato in chiesa con il vissuto nella giornata.

L'eucarestia diventa così una scuola di vita ed un continuo stimolo a portare nella quotidianità l'esperienza sacramentale dell'amore misericordioso di Gesù.

Se non siamo disposti a farlo, è meglio che ci asteniamo dal fare la comunione almeno fino a quando non ci decidiamo ad essere seri col Signore! Altrimenti le dure parole di Paolo varrebbero anche per noi!

Non voglio però finire questa riflessione su una nota negativa. Tutto infatti il Signore sopporta in noi, se solo ci trova disposti ad un continuo sforzo di conversione al suo modo di amare e di condividere.

Quello che egli ci chiede, infatti, non sono i 200 denari che non abbiamo, ma i 5 pani e i due pesci a nostra disposizione; e che nelle Sue mani diventano sufficienti per sfamare le 5000 persone che incontriamo nella nostra vita!

Gesù non ci chiede il molto che non abbiamo, ma solo il poco che è alla nostra portata – e ce lo chiede tutto!

"Ahharurukundo,
agasato kimbaragasa basasira batatu!”

"Dove c'è amore,
perfino una pelle di pulce è basta a coprire tre persone!” (Burundi)

Il pane spezzato: la logica divina del dono che sazia il mondo

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Il pane spezzato: la logica divina del dono che sazia il mondo

C'è un'ora del giorno, e della vita, in cui ogni energia sembra esaurita e le soluzioni svaniscono all'orizzonte. È l'ora del crepuscolo, quando la luce declina e le ombre si allungano. Il Vangelo di Luca ci conduce proprio in questo momento, in un "luogo deserto" (Lc 9,12). Gesù ha parlato per ore, ha guarito, ha accolto. Attorno a lui, una folla immensa, circa cinquemila uomini. Sono affamati, stanchi, e il deserto non offre riparo né cibo.

Questa scena non è un semplice dettaglio di cronaca, ma una potente metafora della condizione umana. Il "luogo deserto" è lo spazio interiore ed esteriore dove sperimentiamo il nostro limite, la sproporzione tra i bisogni immensi che ci circondano e la povertà delle nostre risorse. È l'esperienza della crisi, del sentirsi inadeguati, dello smarrimento di fronte a una fame – di pane, di senso, di speranza – che appare troppo grande per noi.

In questa situazione di impasse, i Dodici si fanno avanti con una proposta ragionevole, quasi ovvia. La loro analisi è lucida e pragmatica: "Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo" (Lc 9,12). La loro non è una reazione malvagia; è la reazione della logica umana di fronte a un problema insormontabile. È la tentazione, sempre presente, di gestire il bisogno allontanandolo, delegando la soluzione ad altri, sperando che il problema si risolva da sé, lontano dal nostro sguardo. I discepoli vedono il problema, misurano le loro forze e non hanno ancora compreso che il Signore non li ha chiamati per essere abili gestori di problemi, ma canali della sua grazia. La loro proposta, apparentemente premurosa, prepara il terreno per il capovolgimento radicale che Gesù sta per operare, una rivoluzione che scardina la logica della scarsità per inaugurare quella del dono.

"Date voi stessi"

Di fronte alla soluzione pragmatica dei discepoli, Gesù risponde con una frase che sposta l'asse dell'intera questione, una frase che è al contempo un comando e una rivelazione: "Voi stessi date loro da mangiare" (Lc 9,13). L'interpretazione di queste parole non può fermarsi alla superficie. La costruzione della frase, infatti, suggerisce un significato più profondo del semplice "procurate voi il cibo". Diversi esegeti, antichi e moderni, hanno colto in questa espressione un'eco potente: "Date voi stessi da mangiare", ovvero, "datevi come cibo". Questa lettura, teologicamente densa illumina il cuore del mistero che si sta svelando.

Gesù non sta semplicemente assegnando un compito impossibile. Sta rivelando ai suoi discepoli la loro vera identità e vocazione. La loro risposta immediata è un inventario della loro miseria: "Non abbiamo che cinque pani e due pesci" (Lc 9,13). Essi ragionano ancora secondo la logica dell'avere, del possesso. La loro attenzione è fissa su ciò che manca. Gesù, invece, li invita a spostare lo sguardo da ciò che hanno (o non hanno) a ciò che sono. La vera risorsa non è contenuta nelle loro bisacce, ma nella loro stessa persona, nella loro capacità di farsi dono, di offrire il proprio tempo, le proprie energie, la propria vita.

Si delinea qui un passaggio fondamentale da un'economia del possesso a un'economia del dono, che è la vera economia del Regno di Dio. Il ragionamento dei discepoli è chiaro: la percezione della scarsità materiale genera una soluzione basata sulla separazione ("congeda la folla") o sull'acquisto di cibo ("a meno che non andiamo noi a comprare viveri"). Entrambe le opzioni mantengono una distanza di sicurezza tra loro e la folla, proteggendoli dal coinvolgimento totale. Il comando di Gesù spezza questa logica. Egli non nega la realtà della povertà materiale, ma la trasfigura. Insegna che la vera miseria non è la mancanza di beni, ma l'incapacità di vedersi come un dono per l'altro. La fede non cancella magicamente il problema, ma cambia radicalmente il modo di affrontarlo: non più con il calcolo e la distanza, ma con la fiducia e la donazione di sé.

Spezzare, non moltiplicare

È significativo che in nessuno dei quattro racconti evangelici di questo evento compaia mai il verbo "moltiplicare". Questa non è una svista, ma una scelta teologica importantissima. Il concetto di "moltiplicazione" appartiene alla logica umana dell'accumulo, della produzione quantitativa, del potere che si manifesta nell'aumento delle risorse. È una logica che, in modo paradossale, spesso non appaga, ma alimenta ulteriormente il desiderio, poiché non riesce a trasformare la naturale inclinazione umana all'egoismo.

Il verbo che gli evangelisti usano è "spezzare". A differenza del moltiplicare, che può essere un atto solitario di potere, lo spezzare è un gesto intrinsecamente relazionale e comunitario. Si spezza il pane solo per condividerlo. È un atto che implica vulnerabilità, apertura, dono. Nello spezzare il pane, si spezza l'egoismo che c'è nell'uomo. Il miracolo, quindi, non è prima di tutto nel pane, ma nel cuore delle persone, che passano dalla logica della trattenere a quella del condividere.

Gesù compie una vera e propria liturgia, anticipando i gesti che compirà nell'Ultima Cena e che la Chiesa ripete in ogni Eucaristia:

  1. Prese: Gesù non crea dal nulla. Prende il poco che i discepoli hanno, i cinque pani e i due pesci. Con questo gesto, Egli valorizza il contributo umano, per quanto irrisorio possa sembrare. Accoglie la nostra povertà e la fa diventare il punto di partenza del suo miracolo.
  2. Alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione: Questo non è un atto magico, ma un gesto di relazione filiale. Gesù collega la terra al cielo, mostrando che il suo potere non è autonomo, ma proviene dal Padre, fonte di ogni dono. La benedizione è un "dire-bene" di Dio, un atto di ringraziamento che riconosce la vera origine di tutto ciò che esiste.
  3. Li spezzò: È il gesto centrale, il cuore del miracolo. È l'atto del dono di sé che rende il cibo condivisibile e sovrabbondante. Questo pane spezzato è una profezia del suo stesso corpo, che sarà spezzato sulla croce per la vita del mondo.
  4. Li dava: Gesù non distribuisce il pane direttamente, ma lo affida ai discepoli. Essi, che prima volevano congedare la folla, ora ne diventano i servitori. Non sono i padroni di quel pane, ma i canali attraverso cui il dono di Dio raggiunge tutti.

L'episodio mette in scena una vera e propria battaglia teologica tra due verbi, che rappresentano due visioni del mondo. La proposta dei discepoli si fonda sul verbo comprare, che appartiene alla sfera del mercato, della transazione, dove si ottiene qualcosa solo in cambio di denaro. La soluzione di Gesù si realizza nel verbo spezzare, che appartiene alla sfera del dono, della gratuità. Gesù dimostra che la logica del dono è infinitamente più potente e generativa della logica del mercato. Mentre il comprare avrebbe esaurito le poche risorse, lo spezzare genera un'abbondanza tale da lasciare dodici ceste di avanzi, simbolo della pienezza per il nuovo Israele, il popolo saziato non dal potere economico, ma dall'amore gratuito di Dio.

Un annuncio fatto di carne e sangue

La liturgia che Gesù improvvisa nel deserto, con i suoi gesti solenni – prendere, benedire, spezzare, dare – non è un evento isolato. Trova il suo significato più profondo e la sua perenne attualità nel mistero dell'Eucaristia, come ci viene consegnato dall'apostolo Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (1Cor 11,23-26). Il gesto del "pane spezzato" nel deserto è la profezia; le parole di Paolo sull'ultima Cena ne sono il compimento e la spiegazione per la vita della Chiesa.

L'apostolo scrive: "Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga" (1 Cor 11,26). Cosa significa "annunciare la morte del Signore", se non proclamare la vittoria di quella stessa logica del dono di sé che abbiamo visto all'opera nel deserto? Si annuncia che Dio non salva con il potere che accumula, ma con l'amore che si spezza e si dona fino alla fine. L'annuncio, quindi, non è affidato primariamente alle parole, ma allo stesso gesto di "mangiare e bere". È una proclamazione fatta con la vita: la Chiesa, nutrendosi del Corpo di Cristo, si impegna a diventare essa stessa corpo donato per gli altri.

Ed è qui che il richiamo di Paolo ai Corinzi si salda potentemente con la scena evangelica. L'apostolo rimprovera una comunità dove, celebrando l'Eucaristia, si creano divisioni: i ricchi mangiano per conto loro, lasciando i poveri affamati (1 Cor 11,21). I Corinzi, di fatto, ripetevano in un altro modo l'errore dei discepoli: di fronte alla fame del fratello, sceglievano la logica della separazione invece di quella della condivisione. Disprezzavano il corpo dei loro fratelli più poveri, rendendo menzognera la loro celebrazione.

Ecco allora che il monito a "riconoscere il corpo del Signore" (1 Cor 11,29) acquista una luce potentissima. Riconosere il corpo significa riconoscere lo stesso Cristo presente nel pane consacrato sull'altare, nel corpo affamato della folla nel deserto e nel corpo umiliato del fratello povero nella comunità. Separare queste presenze, dividere la comunione con Cristo nel sacramento dalla comunione con i fratelli nella vita, significa svuotare l'Eucaristia del suo significato e tradire il suo annuncio. Vivere del "pane spezzato" significa impegnarsi a diventare, come Chiesa, un corpo unito che si spezza per la vita del mondo.