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Oltre il protagonismo: trovare la vera forza nel servizio evangelico

fr. Maggiorino Stoppa

Il Vangelo e le letture della XIV Domenica del Tempo Ordinario, anno C, ci offrono un potente contro una delle tentazioni più sottili, anche della vita cristiana: il protagonismo. In una società che esalta il successo visibile e misura il valore personale in base alla centralità sulla scena, il messaggio evangelico ci propone una via alternativa, un cammino di umiltà, servizio e gioia autentica. Questo itinerario ci invita a non essere i protagonisti della storia, ma i preparatori della via, coloro che, attraverso la loro vita, orientano lo sguardo verso una presenza più grande.

La missione: preparare la via, non occupare la scena

Il racconto della missione dei settantadue discepoli si apre con un dettaglio che è, in realtà, la chiave di volta di tutto il brano e un principio fondamentale per ogni vita cristiana. Gesù, ci dice l'evangelista Luca, "designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi". Questa non è una semplice nota logistica, ma la definizione stessa della nostra identità di discepoli: siamo precursori. La nostra missione non è quella di costruire un seguito personale, di accumulare consensi o di diventare figure di riferimento autonome. Il nostro compito è totalmente orientato verso un Altro che deve arrivare, un incontro che noi abbiamo il compito di preparare e facilitare. Il nostro successo non si misura dalla nostra visibilità, ma dalla nostra capacità di diventare quasi invisibili, affinché colui che segue possa essere visto e accolto.

La missione, nel suo obiettivo di preparare la via per Cristo, definisce il suo metodo: l'umiltà. Le istruzioni che Gesù offre ai discepoli – viaggiare senza pesi, rinunciare alle sicurezze, affidarsi all'ospitalità altrui – non sono semplici esortazioni spirituali, ma condizioni essenziali. Un precursore che arrivasse con un grande apparato, attirando l'attenzione su di sé, avrebbe già fallito la sua missione. Il protagonismo pastorale, quindi, non è solo un peccato di superbia, ma una vera e propria "prassi missionaria scorretta". Corrompe la natura stessa della Chiesa, trasformando una comunità pensata per il servizio in un sistema che serve all'auto-esaltazione del leader. In un sistema così distorto, l'abuso non è più un incidente imprevedibile, ma una conseguenza quasi inevitabile. Essere precursori, invece, significa accettare di diminuire perché Lui cresca: (cfr. Giovanni Battista, Gv 3,30). Questa è la prima e fondamentale forma di libertà a cui siamo chiamati e che siamo invitati a donare. Il vero potere spirituale non si manifesta nel dominare, ma nel liberare gli altri per la loro relazione personale con Dio. Questo principio ha applicazioni concrete nella vita quotidiana:

  • un genitore che educa veramente i figli non li rende dipendenti dalla propria presenza, ma li prepara per camminare con le proprie gambe;
  • un educatore autentico non cerca ammirazione, ma accende la sete di verità negli studenti;
  • un amico vero non manipola l'affetto altrui, ma incoraggia la crescita e la libertà della persona amata.

L'autorità spirituale genuina si riconosce dalla libertà che genera, non dalla sottomissione che ottiene, altrimenti subentra il meccanismo che la psicologia definisce narcisistico che crea le condizioni perfette per l'abuso. La relazione non è più orientata a far crescere l'altro nella libertà, ma a legarlo a sé in una dinamica di dipendenza.

L'Umiltà dell'incontro: guarire dalla pretesa

Tra le istruzioni apparentemente minori che Gesù dà ai suoi discepoli, una in particolare racchiude una profonda sapienza spirituale e relazionale: "restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno". Questa frase, a prima vista pratica, ci apre a una riflessione sull'umiltà, sulla capacità di accogliere e sulla liberazione dalla tirannia delle pretese.

A un primo livello, questa indicazione, unita alla successiva ("perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa"), stabilisce la dignità del lavoro missionario. I discepoli non sono mendicanti, ma operai del Vangelo, e la comunità che servono ha il dovere di sostenerli. È un principio di giustizia e reciprocità.

Tuttavia, il significato spirituale è ancora più profondo. Il comando di "mangiare e bere di quello che hanno" è una potente lezione di umiltà. Il discepolo, colui che porta la Parola e la pace, deve innanzitutto porsi in una posizione di ricevente. Non può presentarsi con una lista di richieste, con esigenze particolari o con la pretesa di un trattamento speciale. A differenza di alcuni farisei dell'epoca, che per motivi di purità rituale portavano con sé il proprio cibo per non contaminarsi, i discepoli di Gesù devono affidarsi completamente all'ospitalità che ricevono. Questo atto di ricevere spoglia l'ego di ogni presunzione di superiorità. Il missionario non è un benefattore che cala dall'alto, ma un fratello che entra in una relazione di mutualità, accettando di sedersi alla stessa tavola e di condividere ciò che c'è.

Inoltre, il comando di Gesù di "mangiare quello che vi sarà offerto" è una pratica spirituale per guarire dalla malattia della pretesa. Ci insegna ad accogliere la realtà così com'è, senza imporle i nostri schemi. In senso più ampio, ci invita a "mangiare" la realtà della persona che incontriamo: con i suoi doni e le sue fragilità, con la sua bellezza e i suoi limiti. È un invito a smettere di amare le nostre proiezioni e a iniziare ad amare la persona concreta, imperfetta e meravigliosa che Dio ha posto sul nostro cammino.

"Nessun altro vanto che nella croce"

Questo stile missionario trova la sua più profonda espressione teologica nelle parole di San Paolo ai Galati: "quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo" (Gal 6,14). Nel mondo romano, la croce era il simbolo supremo della sconfitta, della vergogna e dell'umiliazione. Vantarsene era un'assurdità, uno scandalo. Per Paolo, la croce rappresenta la fine definitiva della logica del mondo, basata sul prestigio, sul potere e sui meriti personali. La croce rivela un Dio che salva non attraverso la potenza che schiaccia, ma attraverso l'amore che si dona fino alla fine.

I discepoli inviati da Gesù al capitolo 10 di Luca incarnano la logica della croce ancor prima che essa si manifesti sul Golgota. La loro missione, priva di potere e sicurezza mondana, anticipa il Mistero Pasquale. Essere "agnelli in mezzo ai lupi" non rappresenta una condizione di vittimismo passivo, ma una scelta strategica e consapevole che traduce in azione la teologia della croce. È l'impegno volontario di vivere il messaggio che si proclama. La fragilità del messaggero diventa parte integrante del messaggio: il Dio che annunciamo è un Dio crocifisso, che ha abbracciato la vulnerabilità per redimere il mondo. Così, il mezzo (l'impotenza) e il messaggio (il Crocifisso) si fondono in un'unica realtà, offrendo una testimonianza di straordinaria coerenza e profondità.

La meta della gioia: i nostri nomi scritti nei cieli

Tutti i fili di questo cammino – la missione come anticipazione, l'autorità come servizio, la forza nella vulnerabilità e l'umiltà dell'incontro – convergono verso un'unica destinazione: la gioia. Ma che tipo di gioia? Il Vangelo ci offre una distinzione fondamentale, separando la gioia fugace del successo dalla gioia incrollabile dell'appartenenza. La vera gioia non deriva dalle prestazioni, ma dall’identità: essere figli amati da Dio. "Rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei cieli" ricorda che la nostra appartenenza a Dio è incrollabile, fondata sulla sua fedeltà e non sui nostri meriti.